Ma l’uomo preistorico era davvero carnivoro? Indagini condotte con diverse metodiche di studio hanno, di recente, sfatato anche questa immagine. In verità, l’uomo ha sempre trovato soprattutto nel mondo vegetale tutto il necessario per soddisfare le sue più svariate esigenze: dal cibo alle medicine, dai vestiti al materiale per crearsi un riparo. La ricostruzione delle relazioni dinamiche tra uomo e piante nel passato risulta, dunque, particolarmente importante per la conoscenza stessa dell'evoluzione delle società antiche. Una fondamentale mano d'aiuto, in tal senso, ci arriva dall'Archeobotanica, una disciplina naturalistica che fa parte integrante dell'Archeologia. A parlarcene è la professoressa Marta Mazzanti, docente di Botanica e Botanica sistematica presso il Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Già coordinatore del Gruppo di Paleobotanica S.B.I (2002/08), la professoressa Mazzanti fa parte della Scuola di Dottorato Earth system sciences: environment, resources and cultural heritage (UniMoRe).
Cos'è l'Archeobotanica e di cosa si occupa?
L’Archeobotanica è, secondo la definizione di Grieg (1989), “lo studio dei resti botanici nei contesti archeologici, dagli strati del Paleolitico fino a quelli del XIX secolo”. I principali oggetti
di studio, con grande potenzialità di conservarsi nei depositi archeologici per millenni e millenni ed anche molto oltre, sono: semi/frutti e annessi fiorali di cui si occupa
l’Archeocarpologia; legni e carboni (manufatti compresi) di cui si occupa l’Archeoxilo-antracologia e la Pedoantracologia; fitoliti (microscopici corpi minerali che si depositano nei tessuti
vegetali); granuli di amido e infine il largo spettro dei microscopici oggetti di studio dell’Archeo-Geopalinologia che si fonda sul polline e spore delle piante vascolari, ma comprende
anche tutta una serie di “reperti” chiamati “palinomorfi non pollinici” che raccolgono: spore e altri reperti dei muschi senso lato, spore e altre strutture fungine, microalghe, cisti e altri resti
algali, resti microscopici di piante vascolari come peli, stomi, frammenti di tessuti e infine perfino reperti animali come uova di parassiti, apparati boccali di insetti, elitre, spermatofori, ecc.
All’Archeo-Geopalinologia si accosta poi lo studio dei microcarboni, quelli osservabili negli stessi preparati microscopici utilizzati per le indagini palinologiche. Oltre alla grande
potenzialità di conservarsi nel tempo, gli oggetti botanici citati hanno la peculiarità di poter essere identificati: da questi resti si può risalire al vegetale senso lato che li ha
prodotti, tenendo presente che il livello di identificazione può arrivare alla specie in molti casi, ma in altri può fermarsi a livello di gruppi di specie, di “tipi”, anche a
seconda della natura botanica del reperto e ovviamente del suo stato di conservazione. Ogni tipologia di reperto ha poi propri metodi di analisi, di trattamento statistico dei dati ottenuti, di
rilevamento di dati morfobiometrici, ecc. e i risultati sono, con poche eccezioni, di tipo qualitativo e quantitativo insieme. In realtà l’Archeobotanica «moderna» è predisposta a coinvolgere non
solo i siti archeologici, ma qualsiasi sito e deposito nel quale sia possibile cogliere e studiare l’azione dell’uomo: ad esempio lo studio di resti come pollini e altri disseminuli, conservati nei
depositi lacustri o marini, permette di risalire all’impatto antropico su un territorio più o meno vasto e quindi alle interazioni ecologiche tra popolazioni e mondo vegetale.
Qual è il peculiare contributo che offre l'archeobotanica alla conoscenza dell'evoluzione delle società antiche?
E’ facilmente comprensibile indicando quelli che sono gli obiettivi prioritari della disciplina. Il primo è la Ricostruzione delle relazioni dinamiche tra uomo e vegetali: l’uomo ha
via via trovato nel mondo vegetale tutto il necessario a soddisfare varie esigenze, come cibo, medicine, vesti, calore, colori, materiale da costruzione, ecc. Le piante sono state fondamentali nella
sfera esoterica e socio-economica, nel mito e nei riti, nei commerci e perfino come indicatori di stato sociale. L’uomo ha iniziato da subito ad agire sul mondo vegetale, con la raccolta, la
selezione, i tentativi di messa a coltura e infine la domesticazione delle specie vegetali (coltivazione e domesticazione non sono sinonimi); poi, ad esempio, introducendo nel proprio territorio
specie esotiche per vari scopi, compreso quello ornamentale. In pratica l’Archeobotanica può fornire l’anello di congiunzione tra passato e presente e rispondere alle domande: quando una specie ha
incrociato la sua strada con quella dell’uomo? In quale area geografica? Per quale scopo/i? Con continutà ? Se, Come e Quando ha viaggiato insieme all’uomo? Inoltre grazie all’osservazione
soprattutto di resti di semi/frutti o di manufatti di origine vegetale (legni/carboni lavorati, fibre, intrecci ecc.), l’Archeobotanica può rispondere anche su come le piante (o parti di esse)
furono manipolate e sui loro possibili utilizzi. Così si possono tracciare all’indietro le tradizioni etnobotanico/ colturali/ culturali di un sito, di una regione, di una nazione e
trovare quei punti di contatto transculturali, che facilitano oggi l’unione tra i popoli.
Il secondo obiettivo, integrato col precedente, è la Ricostruzione del paesaggio vegetale coevo alla frequentazione del sito e il suo evolversi nel tempo, verificando la situazione
pregressa alla frequentazione e mettendo in evidenza i mutamenti via via indotti dall’uomo e dalle sue attività (es.: disboscamenti, rimboschimenti, attività di pascolo, bonifica del territorio,
ecc.). Attraverso la conoscenza dei complessi rapporti tra uomo e ambiente vegetale, l’Archeobotanica permette così di interconnettere l’evoluzione del paesaggio vegetale e la storia dell’evoluzione
culturale dei gruppi umani insediati in un determinato territorio, da cui nasce quello che chiamiamo “paesaggio culturale”, il contesto in cui si muove l’uomo e che l’uomo ha contribuito a costruire
intorno a sè.
Lo studio dell'origine e dell'evoluzione delle specie coltivate ha rivelato particolari che hanno modificato le nostre conoscenze storiche?
Poiché l’avvio della domesticazione delle specie coltivate si arretra ad almeno 13.000 anni dall’oggi è evidente che per molto tempo non si può parlare di “conoscenze storiche”. Le sole conoscenze ci
vengono da un complesso di indagini interdisciplinari che abbracciano un gran numero di settori di ricerca, da quelli archeologici in senso lato (tipologia del sito, tipologia e utilizzi presunti dei
manufatti rinvenuti, ecc.), allo studio dei semi/frutti ritrovati nei siti (ma anche importante a questo scopo è lo studio dei fitoliti) e degli eventuali resti della lavorazione di essi in
particolare dei cereali, ad applicazioni sui semi/frutti dei metodi della genetica antica, ecc. Tuttavia anche in presenza di fonti scritte, da noi più o meno dal periodo classico, l’archeobotanica
può dare informazioni ulteriori e più puntuali, in particolare in merito alle vie percorse dalle specie domesticate, per la loro diffusione in altri territori al seguito dell’uomo. Ad esempio in
Italia la cronologia e il censimento dei reperti del pesco (Prunus persica: gli endocarpi chiamati comunemente “noccioli”), originario della Cina e ivi domesticato, ne documentano un arrivo
probabilmente più precoce di quanto citato da Plinio e una rotta diversa da quella prima presunta (Grecia – Italia Meridionale), rotta che segue i Balcani e arriva prima in Italia Settentrionale.
Ma come si fa a ricostruire il paesaggio di un sito archeologico?
Il polline (e le spore) rappresentano le strutture più adatte per ricostruire le comunità e i paesaggi vegetali del passato. Considerando solo i granuli pollinici prodotti dalle piante a seme, essi
mostrano una grande biodiversità e, attraverso l’osservazione di vari caratteri, ci rivelano in modo inequivocabile la pianta madre: pini, querce, aceri, salici,…. e piante erbacee come graminee,
carici, labiate, ecc. Inoltre i granuli hanno una robustissima parete costituita da sporopollenine, difficilmente degradabili, e vengono diffusi dalle piante ogni anno in grande quantità. In buona
parte si stratificano e seguono le sorti della matrice minerale che via via li ingloba. Immaginando un laghetto che riceva ogni anno i pollini prodotti dalla vegetazione circostante, depositati al
fondo e via via inglobati nei sedimenti, l’estrazione dei granuli da questa successione, il loro riconoscimento, la loro quantificazione assoluta (talora si possono toccare anche 500.000 – 1.000.000
di granuli per grammo di sedimento) e relativa (in percentuale) ci permettono di ricostruire la vegetazione presente nell’area. Lo stesso vale per gli strati prelevati nei siti archeologici, anche se
questi ci danno di solito l’immagine della vegetazione a stretto raggio, sul sito o intorno al sito. Poichè le piante sono distribuite in base alle loro esigenze in fatto di temperature e
precipitazioni, la vegetazione e le comunità vegetali possono cambiare in conseguenza di mutamenti climatici, ma, almeno da 10.000 anni dall’oggi, anche per cause antropiche: ad esempio il calo degli
alberi può avere cause climatiche (ad es. aridità), ma anche antropiche (taglio degli alberi per ricavare spazi aperti per colture e/o pascolo, oppure ceduazioni che riducono la produzione
pollinica). Accostando allo studio pollinico in un sito archeologico quello carpologico si ottengono ottimi risultati, poiché i semi/frutti sono di solito individuati a livello di specie e sono assai
meno diffusibili del polline, aiutando a comporre l’immagine strettamente locale.
L’archeobotanica è in grado di rispondere anche a quesiti più banali del tipo: cosa si mangiava nel Neolitico?
Non è un quesito banale, visto che il cibo è il bisogno primario dell’uomo. Molte indagini, condotte con diverse metodiche di studio, hanno di recente sfatato, per tempi assai più lontani, l’immagine
“carnivora” dell’uomo preistorico. In tempi neolitici le piante hanno contribuito molto all’alimentazione umana. Ovviamente non si può dare un quadro generale che è legato alle cronologie del
Neolitico, diverse per area geografica, ma i reperti più informativi in questo caso sono i semi/frutti che possono conservarsi nei siti sia carbonizzati, che mummificati, che per sommersione (in
presenza di acqua/umidità), talora nei luoghi stessi dove l’uomo li aveva immagazzinati.
Questo tipo di ricerca può aiutare anche in prospettiva futura, ad esempio nella definizione di disciplinari relativi alle produzioni autoctone o nella riscoperta di produzioni locali oggi
sottovalutate?
E’ utile premettere che in Italia (e in Europa) non esiste alcun importante centro di domesticazione, che la stragrande parte delle piante che oggi costituiscono la nostra alimentazione vegetale non
sono certamente autoctone e che per le poche specie alimentari native anche in Italia si discute se siano state oggetto di tentativi di domesticazione in Italia (ma i centri di domesticazione primari
non sono sicuramente da noi). In pratica siamo stati in genere utilizzatori di specie arrivate già domesticate da altri paesi. Ciò non toglie che in seguito anche noi abbiamo selezionato in loco
ecotipi colturali di tali specie coltivate, che sono divenuti tipici di alcuni territori, ad es. il farro della Val Nerina. I reperti molto presto ci indicano la vocazione agraria e gastronomica dei
territori: ad es. a Ferrara, di fondazione alto-medievale, già a partire dai primi strati archeologici, si rinvengono quasi ubiquitari, i semi di zucca, non i semi di Cucurbita, zucche che
arriveranno già domesticate dall’America, ma quelli di Lagenaria siceraria, la zucca africana, nota ai romani, con polpa un poco più insipida delle colleghe americane, ma sempre zucca. I suoi semi
sono presenti anche nella Vasca Ducale, deposito che conteneva la nobile spazzatura della tavola della corte estense alla fine del 1400 e che ha dato informazioni puntuali su quello che giungeva
sulla loro tavola, e sempre la zucca compare in molte ricette dello scalco della Casa d’Este Cristoforo da Messisbugo, delle quali la più significativa per sostenere il legame “gastronomico” è
questa: “A fare una minestra di coste di lattuca in modo che pareranno zucche un mese in anzi tempo”.
Francesco Pungitore