rivista di opinione, ricerca e studi filosofici
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LABORATORIO DI FILOSOFIA

Sofisti, una lezione sempre attuale. Il potere, ipocrisia svelata

Demagogia, propaganda, morale: le maschere della sopraffazione

di Francesco Pungitore

 

Tra gli esseri umani l'esercizio del potere è sempre, in qualche modo, iniquo. In ogni tempo e qualunque sia la forma di governo, il potere si manifesta, invariabilmente, come un atto di prepotenza. Uno o più gruppi di persone, portatori di particolari interessi, dominano su altri gruppi di persone. Questi ultimi (siano essi minoranza o maggioranza, poco importa) finiscono per essere sottomessi alle necessità e alla fame di profitto dei primi. Una sopraffazione, dunque, che reca in sé il germe dell'ingiustizia. Ma è un'ingiustizia “mascherata”, resa più sopportabile da artifizi retorici, demagogia, propaganda politica, narrazioni mitiche, costrutti morali. In altre parole: menzogne, inganni, bugie, falsità intenzionali, utili ai sistemi di potere e ai gruppi di interesse che quel potere esprimono, affinché permanga, il più a lungo possibile, l'equilibrio a loro più congeniale. Un'ipocrisia “svelata”, per la prima volta, con straordinaria lucidità, dai sofisti. L'attualità di quel pensiero è prodigiosa e ancora oggi risulta perfettamente applicabile sia ai singoli Stati (siano essi democratici o totalitari, liberali o autoritari) che, su più vasta scala, agli assetti geopolitici mondiali. Appare, pertanto, particolarmente illuminante una rilettura di quei personaggi e della loro filosofia, così moderna, così efficace anche nell'interpretazione del nostro tempo presente.


La democrazia ad Atene
Grecia, V secolo a. C. Tra le pòleis brilla la democratica Atene. E' l'età di Pericle, epoca di massimo splendore e fioritura artistica e culturale per la città che ospiterà le più grandi scuole di filosofia dell'antichità. L'assetto politico ateniese, riformato più volte nel tempo, si è aperto alla partecipazione dei cittadini, circa un decimo della popolazione residente, restringendo i canonici poteri tradizionali dell'aristocrazia e ampliando ai ceti emergenti gli spazi e le opportunità di eccellenza nella vita pubblica. Ha successo non più solamente chi ha nobilissimi natali, ma anche chi sa affermarsi nella competizione politica, quel terreno di confronto nel quale a prevalere non è tanto l'areté guerriera dell'Achille omerico, quanto l'abilità intellettuale di chi possiede particolari doti nel maneggiare l'arte della parola. Una capacità inestricabilmente legata al potere della persuasione e all'arma del consenso. Competenze, dunque, di fondamentale importanza per primeggiare nelle assemblee e nei tribunali della democratica Atene. Tecniche da affinare e coltivare con uno studio mirato. E quindi i cittadini che aspirano a conquistare posizioni di rilievo nella società ateniese, per se stessi e per i propri figli, investono il loro denaro in un tipo di formazione che possa svelare i segreti della retorica, della dialettica, dell'oratoria. I maestri a cui si rivolgono sono i sofisti, i sapienti, i saggi del tempo. E il loro modello educativo, di grande richiamo per chi ambisce ad affermarsi nell'agone politico, è esattamente incentrato sulla forza del linguaggio come strumento da usare per prevalere nelle dispute verbali, per imporre i propri discorsi, per affermare le proprie tesi sulle altre. Nell'Atene di Pericle, la ragione e il successo arridono a chi riesce ad usare meglio il linguaggio, in quanto strumento di persuasione, per imporre i propri discorsi, prevalendo nelle dispute verbali. Questa è la paidéia che i sofisti del V secolo a. C. offrono, a pagamento, ai propri allievi: l'educazione che consente a ogni individuo libero di formarsi in vista di un inserimento attivo e da protagonista, come cittadino, nella vita pubblica.


Verità e opinione
Date queste premesse, appaiono evidenti le conseguenze di carattere filosofico dell'insegnamento sofistico. Nel confronto dialettico non vince chi argomenta secondo verità, ma chi sa meglio esporre la propria dòxa, la propria opinione. L'argomentare retorico è neutro rispetto al concetto stesso di verità: una opinione vale l'altra e diventa vero e giusto, in ambito politico e sociale, ciò che si riesce ad affermare come tale. Un relativismo, dunque, pressoché assoluto, ma anche lo specchio di una civiltà che comincia a guardare con disincanto ai valori tradizionali, etici e religiosi, fino a sfociare, in epoca più tarda, nel nichilismo (dal latino nihil, nulla: ovvero la negazione di ogni valore immutabile e di ogni significato dato). 


Protagora
Espressione massima di questa temperie culturale è il filosofo Protagora. Nato ad Abdera, in Tracia, nel 486 a. C., intorno ai trent'anni si trasferisce ad Atene dove si afferma cone il più grande tra i sofisti. Stringe amicizia con Pericle che gli affida l'incarico di redigere la costituzione della colonia panellenica di Thurii, in Magna Graecia. I tratti salienti del suo pensiero sono consegnati nelle due opere principali: “Sulla verità” e “Le antilogie”. Celebre è il frammento che afferma: “L'uomo è misura di tutte le cose; di quelle che sono, per ciò che sono; di quelle che non sono, per ciò che non sono”. Una frase che si presta a molteplici interpretazioni. Ma, considerando il clima filosofico nel quale è immerso Protagora, in termini antropocentrici la sua affermazione può soprattutto significare che sono gli uomini, con il loro giudizio, all'interno delle comunità in cui vivono, a “creare” il proprio “mondo”, plasmando i modelli di riferimento più utili e congeniali all'epoca in cui vivono, fissando nelle leggi i criteri di giustizia, di vero e di bene, conformi ai sistemi di potere in atto. Non esistono, dunque, verità assolute, divine, eterne, o principi immutabili nel tempo. Ciò che è o non è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, viene stabilito, di volta in volta, dagli uomini. Il campo dei valori, il campo della morale è, dunque, un qualcosa che si può interpretare solo da un punto di vista umano
Se si mette in dubbio che vi siano verità e valori assoluti, allora è chiaro che il linguaggio, con le sue tecniche di persuasione, assume un ruolo determinante nella vita pubblica: la ragione è di chi riesce a usare meglio le proprie capacità dialettiche per spostare il consenso della maggioranza dalla propria parte. Questo relativismo emerge chiaramente nelle “Antilogie” ovvero “dei discorsi contrapposti”. Qui Protagora sostiene che, in qualsiasi disputa verbale, è possibile difendere ognuna delle tesi che si contrappongono, indistintamente, semplicemente esercitando le giuste tecniche retoriche. Alla fine, la posizione dialettica inizialmente più debole può facilmente diventare quella più forte, ribaltando gli equilibri in campo. Apparentemente estrema e spregiudicata, Protagora pone un limite alla potenza di questa abilità. Chi la esercita deve perseguire come scopo l'utile collettivo, finalizzato al benessere della comunità in cui gli uomini vivono. La forza del linguaggio va sfruttata a questo scopo, non già per ricercare mete filosofiche impossibili, come ad esempio indagare l'esistenza degli dèi. Proprio questa sua posizione critica nei confronti della religione costringe Protagora a lasciare Atene, nel 411 a. C., accusato di empietà, protabilmente, per questo suo scritto: “Riguardo agli Dèi, non ho la possibilità di dire né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana”.  


Gorgia
La forza manipolatoria, persuasiva, della parola, il suo potere di plasmare i pensieri e il comportamento degli essere umani, sono totalmente al centro della riflessione del sofista Gorgia. Nato in Sicilia, intorno al 485 a. C., il filosofo arriva ad Atene all'età di cinquant'anni, quando è già famoso in tutto il mondo greco per i suoi scritti e i suoi insegnamenti. L'idea dell'inconoscibilità e dell'incomunicabilità di un concetto astratto come quello di “essere”, lo avvicina alle riflessioni sugli Dèi di Protagora, da cui si distacca per una visione più radicale della retorica e del suo potere sconfinato. 
Chi possiede le tecniche del linguaggio, secondo Gorgia, può tutto. La parola genera, infatti, condizionamenti irresistibili, può essere farmaco e arma, come emerge nel suo celebre “Encomio di Elena”, trattato nel quale il Sofista nato a Leontini sovverte, con fini argomentazioni dialettiche, le credenze più comuni sulle cause della guerra di Troia, togliendo ogni colpa dalle spalle della regina di Sparta e accentuando la forza seduttiva delle parole di Paride. Nell'imperio del linguaggio, della retorica e della persuasione tratteggiato da Gorgia, il più bravo a maneggiare quest'arte non ha più l'obiettivo di mirare all'interesse collettivo della propria pòlis: è al proprio utile che deve guardare, al proprio tornaconto personale. La parabola dal relativismo al nichilismo è compiuta. Ma quello che emerge è, soprattutto, la straordinaria modernità di un pensiero fortemente critico nei confronti dei dogmi della tradizione, non a caso considerato un Illuminismo “in nuce”. 

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