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L'anno che ha cambiato il mondo e le democrazie occidentali 

L'emergenza non più straordinaria, ma reiterata nel tempo, la cessione volontaria di libertà in cambio di sicurezza: per adesso, Hobbes ha vinto su Stuart Mill

di Francesco Pungitore

 

Tra il 2020 e il 2021, nell'arco di dodici mesi, si è consumato un evento globale che ha trasformato radicalmente il volto delle democrazie occidentali. Una epidemia, un virus, ha imposto a tutti gli Stati, incluso il nostro, una scelta obbligata: sicurezza o libertà? Letta filosoficamente, tra Thomas Hobbes (1588 - 1679), teorico dello Stato assoluto “Leviatano”, e John Stuart Mill (1806 - 1873), strenuo difensore delle libertà individuali, alla lunga ha vinto nettamente il primo. Di fronte alla paura, al dilagare della pestilenza, i cittadini hanno ceduto ben volentieri una parte dei loro diritti acquisiti fondamentali (come la libertà di circolazione, di riunione, d'impresa, persino di proprietà se si pensa al blocco degli sfratti per morosità senza ristori per la parte lesa) in cambio di una “promessa” di pace e protezione. Si definisce “promessa” perché tale rimane a quattordici mesi di distanza dall'esplodere della pandemia. La guerra contro il Covid-19 non è ancora vinta. In questo lasso di tempo, un compromesso ibrido ha tenuto in piedi i vecchi assetti istituzionali che continuiamo a chiamare, convenzionalmente, democrazie liberali. Ma le libertà di cui sopra non sono state ripristinate. Altri obblighi verranno imposti. E le elezioni, massima espressione di sovranità dei popoli? Restano, quasi ovunque, congelate in nome della cosiddetta “emergenza”. Focalizzando l'attenzione sulla nazione che più ci interessa, da febbraio 2020 l'Italia vive questa particolare situazione di “necessità e urgenza”. E' possibile immaginare che ciò accada, per così tanto tempo, senza determinare conseguenze sugli assetti democratici futuri del nostro Paese? 

L'emergenza come stato temporaneo
Secondo l'enciclopedia Treccani, per emergenza si deve intendere una “circostanza imprevista” ovvero un “momento critico che richiede un intervento immediato”. Il carattere della “temporaneità” appare fondamentale, evidente, anche se non quantificato. Lontano nel tempo, nella Roma repubblicana ad esempio, l'emergenza era codificata nella durata massima di sei mesi: tanto doveva restare in carica il magistrato straordinario (dictator) eletto dal senato in caso di pericoli da affrontare con l'uso di particolari “poteri speciali”. Il motivo di una tale limitazione doveva apparire piuttosto evidente ai cives che si erano liberati con la forza di un dispotico re Superbo, cancellando, in malo modo, l'idea stessa della monarchia dalla storia dell'Urbe. Lo “stato di emergenza” non trova spazio nel nostro attuale dettato costituzionale. L'unico riferimento è dato dall’articolo 77 nel quale è prevista la possibilità, in capo al Governo, di adottare provvedimenti provvisori con forza di legge (il decreto legge) in “casi straordinari di necessità e urgenza”. Ma si precisa, altresì, che “il Governo non può, senza delegazione delle Camere [cfr. art. 76], emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni [cfr. artt. 61 c. 2, 62 c. 2]. I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”. Insomma, la saggezza pressoché insuperabile dei nostri padri costituenti ha fissato, tra le righe, un principio ineludibile: i contrappesi devono sempre equilibrarsi e i tempi vanno calendarizzati con precisione massima, per evitare possibili “derive” dagli esiti inimmaginabili. La domanda è: quanto può legittimamente durare un'emergenza, prima che una democrazia divenga qualcos'altro, qualcosa di profondamente diverso?

I costi per la democrazia
Di fatto, data “l'emergenza Covid”, ci troviamo da quattordici mesi (un tempo che non possiamo non ritenere lunghissimo) a dover subire misure restrittive delle libertà personali, con preclusione delle possibilità di riunione, limiti di circolazione tra territori e una serie di implicazioni economiche, per privati e imprese, talora molto gravi. Certamente, un alto costo in termini di democrazia. Ma un costo, dicevamo, che i cittadini hanno consapevolmente accettato, almeno nella stragrande maggioranza. Con quale logica? Pensando a una sospensione delle dinamiche democratiche (incluse le elezioni più volte rinviate, ecc.) nella prospettiva di un celere ripristino della situazione di normalità e, quindi, di un veloce ritorno all’assetto ordinario. Dopo quattordici mesi, si può ancora parlare di situazione “necessaria” e “urgente”, si può ancora accettare l'uso del termine “emergenza”, con il suo carattere di temporaneità? Si può ancora affermare, dopo oltre un anno, di essere impegnati a fronteggiare una “situazione straordinaria”? La risposta è già nella domanda. Risponderebbe convintamente “no” il citato John Stuart Mill, uno dei fondatori dello Stato moderno, democratico e liberale, uno dei primi e più efficaci difensori della libertà dei cittadini. Soprattutto della libertà di pensiero. E' sua la famosa frase: “Se tutta l'umanità, meno uno, fosse della stessa opinione e solo un individuo dell'opinione contraria, l'umanità non avrebbe maggior diritto di ridurre al silenzio quell'uomo di quanto ne avrebbe questo, se lo potesse, di ridurre al silenzio l'umanità”. In breve, Stuart Mill ritiene che pace, sicurezza e protezione non possano mai, in alcun modo, essere frutto di un assoggettamento imposto con vincoli di forza (“Ogni vincolo, in quanto vincolo, è male”). Uno Stato di diritto, democratico e liberale, per definirsi tale deve sempre tutelare e garantire l’autonomia del singolo individuo, considerato tale per la sua natura di essere dotato di ragione. In omaggio a questo principio di ragione, ai cittadini va sempre garantita chiarezza e trasparenza nel condividere i motivi delle decisioni adottate. Cosa che, guardando ai fatti nazionali più recenti, è proprio ciò che oggi sembra mancare di più alla politica. Più di ogni altra cosa. Chiarezza e trasparenza non significa, infatti, inondare di messaggi-spot la popolazione, secondo un modello informativo superficiale, oggettivamente irritante, poggiato in gran parte sui linguaggi della comunicazione via social. Chiarezza e trasparenza significa spiegare, indicando nel dettaglio le basi razionali che portano a determinate scelte. 

Consenso o partecipazione?
Concludendo, il nuovo bivio sul quale si deciderà il futuro delle democrazie occidentali è, dunque, racchiuso in due parole: consenso o partecipazione? Non dobbiamo soltanto chiederci se accettare, sempre di più, una visione diversa di democrazia, con tante libertà in meno in cambio di maggiori garanzie di sicurezza. Il nodo di fondo è strettamente legato ai meccanismi di informazione e comunicazione che verranno adottati nell'accompagnare le scelte strategiche future, quelle che andranno a definire la struttura dell'intero mondo post-pandemia. Riconnettere i cittadini con la politica, in termini partecipativi, potrebbe rivelarsi prioritario per “salvare” quanto ci resta della straordinaria eredità ideale (di libertà) di filosofi come John Stuart Mill. L'altra faccia della medaglia potrebbe, invece, manifestarsi nel volto distopico di quelle democrazie di sola facciata preconizzate da grandi scrittori come George Orwell, poggiate sulle fondamenta di un consenso “costruito” ad arte, mediante studiati meccanismi di propaganda. [2 aprile 2021]

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