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Una liberalizzazione fallimentare

Negozi sempre aperti, è tempo di cambiare

Oltre 73mila piccole attività sparite dal 2008 al 2015. Più di 600 mila locali commerciali sfitti, soprattutto nei centri storici. Danni all'occupazione, al decoro urbano, all'erario (per i mancati introiti tributari). Numeri da fare impallidire anche i più entusiastici fautori della deregulation estrema, senza limiti, senza regole e senza eguali nei maggiori Paesi europei. Quella deregulation, tanto per intenderci, che dal governo Monti in poi, con il decreto “Salva Italia”, ha fatto sì che i negozi dello Stivale possano aprire e chiudere quando vogliono, possano tenere alzate le saracinesche anche 24 ore su 24 e sette giorni su sette. “Liberalizzazione”, però, in questo caso ha fatto rima con “desertificazione”, provocando un colpo mortale diretto al cuore dei piccoli imprenditori del commercio, che non riescono, ovviamente, a reggere la concorrenza insostenibile della Grande distribuzione organizzata, capace di imporre ritmi di lavoro “h-24” per 365 giorni l'anno. Contro questa normativa che crea una evidente iniquità economica e sociale e che ha pesantemente danneggiato le piccole e medie imprese del commercio, favorendo solo ed esclusivamente la grande distribuzione, in queste settimane si gioca una battaglia importante. Un progetto di legge in discussione al Senato punta ad una parziale (parzialissima) marcia indietro, introducendo dodici giorni di chiusura obbligatoria per tutti gli esercizi commerciali, in concomitanza con le dodici maggiori festività civili e religiose: 1 Gennaio, Epifania, 25 Aprile, Pasqua, Pasquetta, 1 Maggio, 2 Giugno, Ferragosto, 1 Novembre, 8 Dicembre, Natale e Santo Stefano. In realtà, da dodici poi si arriverebbe, effettivamente, a sei, in virtù di una possibile deroga, concessa soprattutto per venire incontro alle particolari esigenze delle località turistiche. Sei è un numero davvero basso. Ma anche queste poche chiusure già fanno gridare allo scandalo. In prima linea chi, in questi anni, ha tratto i maggiori vantaggi dalla situazione in atto (centri commerciali e affini), incurante dell'effetto “boomerang” abbattutosi sul resto dell'economia nazionale. In verità, qualche riserva di carattere più generale è stata mossa anche dall'Antitrust. Ma Mauro Bussoni, segretario generale nazionale di Confesercenti, puntualizza: “A noi sembra una regolamentazione minima, ragionevole e  assolutamente compatibile con i principi e le prassi prevalenti in Europa in materia di libertà di concorrenza”. 

“Monti - continua Bussoni - aveva promesso che con questa liberalizzazione sarebbe aumentato il Pil, sarebbe aumentata l'occupazione, si sarebbe stimolata una maggior concorrenza. Tutte e tre queste cose sono risultate non vere. Dunque, nessun beneficio. Gli unici effetti certi rilevati sono stati la compressione dei diritti dei piccoli imprenditori e lo spostamento di quote di mercato dai negozi tradizionali alla grande distribuzione”. “E' chiaro che noi - sottolinea il segretario generale di Confesercenti - non chiediamo di stare chiusi sempre, ma di restare aperti solo quando e dove necessario, come ad esempio nelle località turistiche. Per questo riteniamo giusto che le competenze in materia di aperture domenicali e festive debbano tornare al territorio, lì dove si è in grado di predisporre un programma di aperture davvero corrispondente alle esigenze dei consumatori ma anche rispettoso delle esigenze di chi lavora e di quel modello distributivo italiano che è, storicamente, fatto di piccole e medie imprese. Oggi si grida allo scandalo per sei giornate di chiusura? C'è una realtà italiana che parla da sola, il vero scandalo è l'illogicità di talune argomentazioni”. I parlamentari Pd, 5 Stelle, Forza Italia, Ndc e Lega Nord, sia pure con argomentazioni diverse, sembrano tutti pronti a trovare la quadra giusta. Almeno a parole. Ma c'è da fidarsi? “La verità è che, per troppo tempo, è mancata una analisi seria, in chiave politica, del problema” conclude Bussoni. Oggi sul fronte di chi sostiene la necessità di una correzione più restrittiva del “Salva Italia” c'è anche la Chiesa. Dall'altra parte della staccionata spicca il megafono di Federdistribuzione, l’associazione delle grandi catene di super e ipermercati. E non potrebbe essere altrimenti. Quali sirene ascolterà la politica italiana?

 

Francesco Pungitore

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