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La guerra, le bombe: realismo degli esperti e rischio depressione

"Attenzione agli effetti delle parole sulla generazione fragile degli adolescenti"

di Francesco Pungitore*

 

Il commissario di Governo per l'emergenza Covid, Domenico Arcuri, ha evocato “i bombardamenti della Seconda guerra mondiale” per spiegare gli effetti drammatici del contagio da coronavirus in Lombardia. Arcuri è un manager di grande valore ed esperienza. Avrà adeguatamente vagliato il peso di quelle sue parole, prima di pronunciarle. Avrebbe potuto anche aggiungere che, probabilmente, l'Italia ha affrontato questa nuova “guerra” esattamente come fece negli anni '40 del secolo scorso. Senza imparare nulla. Per usare la stessa metafora, l'Italia è andata alla “campagna di Russia” con le scarpe di cartone e i fucili di legno. Tanto per intenderci, nel gennaio 2020, prima dello scoppio dell'epidemia, avevamo 5.300 posti letto (peraltro già occupati intorno al 50 per cento) di terapia intensiva. Quella era la nostra “contraerea” modellata da anni di tagli e spending review. La Germania aveva, invece, una dotazione di 28mila posti letto, oltre a una maggiore disponibilità di dispositivi di sicurezza e ventilatori (fonte: Quotidiano Sanità dell'11 aprile 2020). Il risultato del sillogismo è facile da intuire: il Paese della Merkel “in appena dieci giorni ha portato l'epidemia sotto controllo” (fonte: il Messaggero del 18 aprile 2020); l'Italia è ancora paralizzata dal terrore di uscire dal lockdown. 
Una paura alimentata anche dal lessico catastrofista che sembra essersi impossessato dei nostri media mainstream. Sono i cosiddetti “esperti” in particolare a prediligere questa ermeneutica “realista” del problema che lascia ben poco spazio alla speranza. Guardare un Tg ed è come svegliarsi ogni giorno e rivedere sempre la famosa scena del film di Troisi: “Ricordati che devi morire...!”. Che il coronavirus vada combattuto con eccezionale risolutezza lo hanno capito tutti. E nessuno dotato di senno lo contesta. 
Ma a che serve accompagnare questa battaglia sanitaria con continue bordate alla psiche, all'anima delle persone? 
Pensiamo mai a quella intera generazione di ragazzi e ragazze che si sta affacciando adesso alla vita?
Sbagliavamo già prima, con loro, quando gli lasciavamo credere che il mondo fosse un immenso luna-park senza oneri né responsabilità. Sbagliamo ancora di più oggi, descrivendogli un futuro di macerie e mascherine, di bagni al mare con lo scafandro e di distanziamento protettivo (o punitivo?) dai propri nonni. 
I più delicati gli raccontano di “un mondo che non tornerà più lo stesso” prima di lanciarsi in previsioni apocalittiche su quello che potrà accadere. Parole non senza conseguenze. Parole che possono esplodere e fare danni, esattamente come le bombe evocate da Arcuri, nella mente fragile di un adolescente. Del resto, a dirlo è la stessa “scienza”.
Le università dell’Aquila e di Roma Tor Vergata, insieme al Centro di documentazione “Territori Aperti”, proprio in questi giorni hanno pubblicato i risultati di una indagine che evidenzia “l'impatto del lockdown sulla sintomatologia depressiva, ansiosa, ossessivo-compulsiva e post-traumatica nella popolazione”. 
Un recente articolo pubblicato dalla rivista di medicina “Lancet”, analizzando gli studi passati sull’effetto psicologico delle quarantene, spiega come “isolamenti anche inferiori ai dieci giorni possono portare a effetti a lungo termine” tra cui “sintomi di stress post traumatico”. 
Se all'isolamento forzoso abbiniamo il peso del linguaggio “miasmatico” con il quale gli “esperti” si accaniscono nel disegnare il caos nel nostro futuro prossimo, miscelando sfiducia, tristezza, vulnerabilità, incertezze, ci resta ben poco da fare. 
Secondo Costanza Jesurum, psicoterapeuta e scrittrice (è autrice di “Guida portatile alla psicopatologia della vita quotidiana” e “Fuori e dentro la stanza”): “Si teme molto un aumento dei tentativi di suicidio e un aumento degli esordi psicotici”. 
In questo scenario, non dovremmo mai dimenticare i nostri ragazzi, dovremmo custodirli e proteggerli come la ricchezza più preziosa della nostra società. 
Non si tratta di raccontare “bugie” condite dal retorico, banale e (a lungo andare) irritante “andrà tutto bene”, ma dovremmo pensare a come sostenerli seriamente i nostri figli, i nostri studenti, nel loro sforzo proteso a ritrovare il senso della propria vita dopo l'irruzione catastrofica del Covid nella loro esistenza. 
Dovremmo fungere da esempio, magari. Esprimendo, anche e soprattutto nel nostro linguaggio, capacità e tensioni positive, come quella di sapersi orientare, con coraggio, verso il futuro. Proponendo significati da realizzare, in termini costruttivi e non più depressivi. Che l'essenza stessa della vita sia la sua strutturale precarietà e imprevedibilità, in fondo, lo sappiamo da sempre, almeno fin dai tempi del “panta rei” di Eraclito. Cos'è cambiato adesso?

 

*giornalista e docente di Filosofia

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