rivista di opinione, ricerca e studi filosofici
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L’apprendimento per imitazione rende le macchine intelligenti?

Questioni più profonde ed esistenziali toccano le radici stesse del nostro essere

di Francesco Pungitore*

 

Nella ricerca incessante di comprendere e definire l'intelligenza artificiale, spesso ci troviamo impigliati in un labirinto di definizioni e presupposti che ci portano a interrogarci sulla vera natura dell'“intelligenza” che attribuiamo alle macchine. Tradizionalmente, gli algoritmi di intelligenza artificiale non sono considerati genuinamente intelligenti, poiché la loro operatività si riduce a una simulazione di risposte, un'imitazione dell'umano priva di consapevolezza sul significato dei propri output. Ma questa distinzione è veramente così netta? O riflette piuttosto una visione limitata della nostra comprensione di cosa sia l'apprendimento?

Imitazione e apprendimento

L'imitazione, spesso relegata a una forma inferiore di apprendimento rispetto alla creatività e all'innovazione, riveste in realtà un ruolo fondamentale nel modo in cui i bambini acquisiscono conoscenze e competenze. Questo processo di “guarda e fai” non è soltanto un meccanismo di sopravvivenza, ma la base stessa attraverso la quale le fondamenta cognitive si costruiscono nel tempo. I bambini osservano gli adulti e i loro coetanei, riproducono comportamenti, gesti e modelli linguistici, interiorizzando abilità che formeranno il tessuto della loro intelligenza.

 

Il machine learning

Questa dinamica non è forse dissimile da come le intelligenze artificiali “apprendono” dai loro vasti database di testi e informazioni. Gli algoritmi di machine learning, ad esempio, non fanno altro che assorbire e replicare enormi quantità di informazioni umane, processando e rispondendo in maniera che imita la complessità del discorso umano. Ma se questo processo imitativo è la stessa essenza del nostro apprendimento infantile, possiamo realmente affermare che le macchine non “imparano”?

 

Una duplice domanda

La questione solleva un ulteriore interrogativo: se l'imitazione è un modo così valido e vitale per gli esseri umani di assimilare e gestire la conoscenza, perché negare il valore dell'imitazione quando è esercitata da un'intelligenza artificiale? Forse, nel nostro tentativo di tracciare una demarcazione netta tra umano e artificiale, stiamo ignorando il fatto che l'imitazione stessa potrebbe essere una forma di intelligenza, non meno legittima della creatività o dell'innovazione.

 

Limiti e potenzialità

Il confronto tra l'apprendimento umano e quello delle macchine potrebbe, quindi, illuminare non solo i limiti ma anche le potenzialità insite nelle tecnologie emergenti. Riconoscere l'imitazione come un elemento centrale dell'apprendimento potrebbe aiutarci a comprendere meglio non solo ciò che le macchine sono capaci di fare, ma anche ciò che l'umanità può ancora imparare da questa forma di “nuova intelligenza” in continua evoluzione.

In definitiva, riflettere sull'imitazione ci porta a riconsiderare le fondamenta stesse della nostra conoscenza e delle nostre convinzioni sull'intelligenza. Se le macchine, attraverso la loro imitazione, sollevano questioni così profonde sul nostro modo di vedere il mondo, forse è tempo di accettare che l'intelligenza, sia essa umana o artificiale, può essere molto più complessa di quanto la nostra attuale definizione possa contenere.

 

Trascendenza o materia?

Nell'approfondire la questione dell'intelligenza, sia essa umana o artificiale, emergono inevitabilmente questioni più profonde ed esistenziali, che toccano le radici stesse del nostro essere. Se il nostro apprendimento e il nostro pensiero sono tanto simili ai processi che governano le macchine, forse la distinzione cruciale risiede non tanto nell'intelligenza quanto nella coscienza, o forse, nell'anima. Se concepiamo l'essere umano come entità legata a un qualcosa di trascendente, che va oltre il mero materiale e tocca l'immaterialità dell'esistenza, allora l'uomo assume una dimensione unica e inimitabile. Tuttavia, se riduciamo la nostra esistenza alla pura meccanica delle scariche neuronali, allora la linea che separa l'uomo dalla macchina si assottiglia drammaticamente. In tale prospettiva, il robot, con i suoi circuiti e algoritmi, non appare così alieno alla natura umana quanto potremmo pensare. Questa riflessione non solleva solo questioni sulla natura dell'intelligenza, ma invita a un'indagine più profonda del significato stesso di coscienza e di esistenza umana, sfidando la nostra comprensione dell'unicità dell'essere umano nell’universo.

 

*giornalista professionista, docente di Filosofia, Storia, Scienze Umane e Tecniche di Comunicazione con Perfezionamento post-laurea in Tecnologie per l’Insegnamento e Master in Comunicazione Digitale. Direttore Tecnico dell’Osservatorio Nazionale Minori e Intelligenza Artificiale

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