di Francesco Pungitore
“Alcune luci ma anche numerose ombre”. Il professor Stefano Luconi, docente di Storia degli Stati Uniti d'America presso l'Università di Padova, giudica così gli ultimi otto anni a stelle e strisce contrassegnati dalla presidenza Obama. Il 12 gennaio scorso il primo afroamericano della storia statunitense ad essere arrivato alla Casa Bianca ha tenuto a Washington il suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione. Proprio su quelle sue parole pronunciate davanti al Congresso Usa abbiamo focalizzato il tema di questa nostra intervista al prof. Luconi.
Barack Obama e il suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione. Che eredità storica lascia, dal suo punto di vista, l'inquilino della Casa Bianca?
Lascia un'eredità controversa, con alcune luci, ma anche con numerose ombre. Obama ha iniziato il suo mandato alla Casa Bianca all'insegna della volontà di procedere a cambiamenti radicali, sia in
politica interna sia in campo internazionale. Su di lui, soprattutto da parte europea, sono state proiettate aspettative superiori alle sue stesse promesse in campagna elettorale, come dimostrato in
maniera paradigmatica dall'assegnazione del premio Nobel per la pace a un presidente che aveva assicurato sì il ritiro delle forze combattenti dall'Iraq entro diciotto mesi dalla sua entrata in
carica, ma al tempo stesso aveva pure manifestato l'intenzione di voler continuare a combattere il terrorismo di matrice islamica fondamentalista, tornando ad affrontarlo in Afghanistan. In politica
interna, Obama lascia una robusta ripresa economica, che ha riportato il tasso di disoccupazione al di sotto del 5% grazie alla creazione di quasi 14 milioni di nuovi posti di lavoro, e maggiori
controlli sul mondo della finanza, per prevenire la speculazione che aveva concorso al crollo dell'economia nell'autunno del 2008. Il presidente è anche riuscito a condurre in porto la riforma
sanitaria del 2010 che, tuttavia, ha dimostrato non poche disfunzioni burocratiche nel corso della sua complessa attuazione e, comunque, non è stata in grado di realizzare la copertura medica
universale. La legge consente alcune deroghe all'obbligo della copertura assicurativa per tutti i residenti negli Stati Uniti. La percentuale di adulti scoperti resta oggi superiore al 10%. Obama ha
rivelato particolare sensibilità sui temi ambientali, cercando di ridurre le emissioni di biossido di carbonio che contribuiscono all'effetto serra e potenziando il ricorso alle energie alternative.
Tuttavia, ha anche autorizzato trivellazioni petrolifere al largo dell'Alaska e il ricorso a tecniche invasive come il fracking per l’estrazione degli idrocarburi dal sottosuolo. Il tentativo di
regolarizzare la posizione di alcuni milioni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti si è arenato nelle sabbie del contenzioso giudiziario sulla presunta incostituzionalità del
provvedimento e non si prospetta un esito diverso per le misure presidenziali sul controllo delle armi. Obama ha rilanciato le iniziative sui diritti degli omosessuali, culminate nella storica
sentenza della Corte Suprema che nel 2015 ha riconosciuto la legittimità del matrimonio tra persone dello stesso genere. Ma il presidente non è ancora riuscito a chiudere la struttura detentiva di
Guantanamo, teatro di palesi violazioni dei diritti umani nella lotta al terrorismo. Quest'ultimo è tornato a colpire gli Stati Uniti a San Bernardino, sia pure per opera di "cani sciolti" e senza
provocare un numero di vittime paragonabile a quelle dell'11 settembre 2001 o degli attentati che hanno colpito la Francia nel 2015. In politica estera, Obama ha cercato di restituire prestigio agli
Stati Uniti, affidandosi al "soft power" e alla diplomazia, dopo gli interventi militari unilaterali dell’amministrazione di George W. Bush. Tuttavia, le concessioni fatte alla Russia nel settore
della riduzione degli armamenti non sono state in grado di impedire la ripresa dell'espansionismo di Mosca ai danni dell'Ucraina. Né Obama è riuscito a ricucire completamente lo strappo con gli
alleati europei. Nei loro confronti ha avuto un'attenzione di gran lunga minore a quella dedicata alla Russia, al Medio Oriente e all'Asia. Inoltre, verso gli alleati europei ha fatto ricorso alla
stessa arroganza di presidenze passate, come dimostrato dallo scandalo delle intercettazioni ai capi di Stato e di governo. L'aver affermato, in occasione delle primavere arabe, che gli Stati Uniti
riconoscono il principio dell'autodeterminazione dei popoli nella scelta di forme di governo e governanti non è servito ad acquisire nuovo credito per gli Stati Uniti in Medio Oriente. Ne è stata la
prova il sanguinoso assalto al consolato americano di Bengasi l'11 settembre 2012, in cui persero la vita l'ambasciatore statunitense e tre cittadini americani del suo seguito, nonostante il
contributo fornito da Washington nel permettere il rovesciamento del regime di Gheddafi. Il ritiro delle truppe combattenti dall'Iraq e dall'Afghanistan non ha messo fine al coinvolgimento militare
degli Stati Uniti in queste due regioni. Il ritardo nell'affrontare il dossier della guerra civile in Siria e la politica di combattere i conflitti per procura e attraverso l'uso dei droni, ma senza
un dispiegamento consistente di truppe sul terreno ha permesso la crescita dell'Isis. La prospettiva di un disimpegno statunitense dal Medio Oriente ha acuito l'instabilità della regione perché ha
incoraggiato potenze in competizione tra loro, quali la Russia e la Turchia, a ingerirsi nell'area per occupare lo spazio che Washington sta progressivamente lasciando. La normalizzazione dei
rapporti con Cuba, grazie anche alla mediazione del Vaticano, e l'accordo sul nucleare iraniano sono due importanti risultati. Ma la recentissima provocazione di Teheran verso gli Stati Uniti (dieci
marinai statunitensi di pattuglia nel Golfo Persico sono stati catturati e detenuti per breve tempo dalla marina iraniana poche ore prima che Obama pronunciasse il suo discorso) sono un segnale in
controtendenza rispetto agli auspici di Obama e sembrano palesare un altro aspetto di velleitarismo della diplomazia del presidente.
Obama ha lanciato un messaggio di fiducia e di ottimismo: “L'America resta di gran lunga la nazione più forte, l'economia più solida del mondo”. E' davvero così?
Assolutamente no. Obama ha adottato il metro della spesa per le forze armate quale misura del primato statunitense, che sarebbe attestato dal fatto che gli Stati Uniti destinano al bilancio militare
una cifra superiore a quella complessiva delle otto nazioni che, dopo di loro, spendono di più in armamenti. Tuttavia, in un'epoca di guerre asimmetriche e di accesso potenzialmente facile alle armi
di distruzione di massa da parte dei gruppi terroristici, l'entità del budget per la difesa non costituisce più un valido criterio per attestare la forza di uno Stato. Il debito pubblico statunitense
ha superato i 18mila miliardi di dollari. La quasi parità tra dollaro ed euro è destinata a penalizzare le esportazioni statunitensi al pari del crollo del prezzo del greggio, dopo che gli Stati
Uniti sono tornati ad essere esportatori di petrolio proprio durante l'amministrazione Obama. Il deficit della bilancia commerciale con la Repubblica Popolare Cinese, il principale rivale non solo
economico degli Stati Uniti, è in continua crescita e ha raggiunto circa 350 miliardi di dollari lo scorso anno. Inoltre, il 10% del debito pubblico statunitense è nelle mani di banche cinesi. Ma la
principale criticità dell'economia statunitense risiede nella crescita della disparità nella distribuzione della ricchezza all'interno della società americana a fronte della ripresa economica
complessiva della nazione durante la presidenza di Obama: nell'ultimo triennio il coefficiente di Gini, che esprime la sperequazione del reddito, negli Stati Uniti è stato superiore a 0,4, un valore
che dimostra una diseguaglianza maggiore ai Paesi dell'Unione Europea, al Canada, all'Australia. Il tasso di povertà negli Stati Uniti è oggi pari al 14,8%, cioè è più alto di quando Obama è entrato
in carica nel 2009 nel pieno della grande recessione. Questi andamenti smentiscono la dichiarazione di Obama che un futuro di opportunità, sicurezza economica e standard di vita in crescita sia “a
portata di mano” per tutte le famiglie americane. Nel discorso sullo stato dell’Unione, Obama ha aggiunto anche che “quando sorge qualsiasi importante questione internazionale, i popoli del mondo non
guardano a Pechino o a Mosca - si rivolgono a noi”. Questa affermazione, però, è applicabile al solo occidente e neppure sempre. Gran parte delle popolazioni mediorientali e del mondo islamico
continua a vedere negli Stati Uniti un Paese di prevaricatori da tenere a distanza, quando non addirittura un nemico da combattere.
Nel suo discorso Obama ha anche affermato che ciò che ha reso grande l'America è l'aver visto opportunità dove altri avevano paura. E' stata questa la grande forza degli
Usa?
Durante la campagna elettorale del 1932, nel pieno della depressione economica, l’allora candidato democratico alla presidenza, Franklin D. Roosevelt, dichiarò che l'unica cosa di cui gli Stati Uniti
dovessero avere paura era la paura stessa. L'affermazione di Obama rientra nell'ambito della retorica elettoralistica ed ha soprattutto lo scopo di screditare le posizioni di Donald Trump, il
personaggio che i sondaggi di opinione per il momento accreditano delle maggiori possibilità di essere lo sfidante repubblicano del candidato democratico nelle elezioni presidenziali di novembre.
Trump sta facendo leva sulle paure degli americani per gli attentati terroristici, come quando ha formulato la proposta populista e inattuabile di vietare ai mussulmani l'ingresso negli Stati Uniti.
Tuttavia, la xenofobia è una caratteristica storica della società statunitense. Sebbene il Paese rivendichi l'immagine di “nazione di immigrati” che ha saputo cogliere le opportunità del contributo
fornito dagli stranieri al proprio sviluppo economico, sociale e culturale, la paura del diverso ha attraversato tutta la sua storia, avendo come bersaglio gli esuli giacobini della Francia
post-rivoluzionaria alla fine del Settecento, i cattolici "papisti" alla metà dell'Ottocento, gli anarchici e i socialisti tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, i “bolscevichi” dopo la
prima guerra mondiale, i comunisti durante la guerra fredda, gli immigrati ispanici irregolari nei primi anni Novanta del Novecento. Perfino gli ebrei in fuga dall'antisemitismo nazifascista si
trovarono sbarrate le porte degli Stati Uniti, per il timore che potessero sottrarre posti di lavoro agli statunitensi, mentre il Paese versava ancora nella depressione economica, e per il sospetto
che tra loro potesse nascondersi qualche spia di Hitler. In fondo, l'odierna accoglienza esigua dei profughi siriani (appena 10mila) rispetto al numero di quanti sono stati ospitati in Europa è
frutto del riproporsi delle paure del passato. Lo stesso presidente Obama si è uniformato alle paure degli Stati Uniti quando si è illuso di poter condurre una guerra per procura contro l'Isis e di
poter ricorrere ai soli droni per evitare l’impiego di truppe sul terreno. E su queste scelte ha giocato l'altra grande paura storica degli Stati Uniti, la sindrome del Vietnam, cioè il timore di
ritrovarsi invischiati in guerre asimmetriche dalle quali non sarebbero riusciti a uscire, a cui è attribuibile il ritardo nella risoluzione delle guerre civili che hanno sconvolto la ex Jugoslavia
negli anni Novanta del Novecento e l'aver consentito il genocidio in Ruanda nel 1994.
Tra le contraddizioni irrisolte di questo grande Paese resta però la macchia delle violenze razziali, mai definitivamente sopite...
Direi di più. Durante i due mandati di Obama queste violenze si sono addirittura acuite. Per trovare un episodio analogo all'eccidio di Charleston, nella Carolina del Sud, dello scorso 17 giugno,
quando uno squilibrato ha massacrato nove afroamericani in una chiesa, bisogna tornare all'epoca in cui esisteva ancora la segregazione razziale, cioè occorre risalire al 16 settembre 1963, quando
una bomba uccise in una chiesa di Birmingham quattro bambine afroamericane. Dopo l'inizio del mandato di Obama la tensione razziale si è accentuata, con degenerazioni anche violente, perché il
progressismo del presidente su alcune questioni come la riforma sanitaria e i diritti degli omosessuali ha trasformato il dibattito tra i due principali partiti in uno scontro che è stato declinato
sempre più in termini di conflitto razziale, in ragione del fatto che il capo dell'esecutivo contestato è di ascendenza africana. Secondo un'inchiesta del "Washington Post", sebbene gli afroamericani
siano il 13% della popolazione statunitense, costituiscono quasi il 40% dei cittadini disarmati uccisi dalla polizia nel 2015. Il "racial profiling", cioè il pregiudizio razziale nelle operazioni
delle forze dell'ordine, continua a dominare perché le minoranze sono ancora sottorappresentate negli organici della polizia e, quindi, gli agenti generalmente non rispecchiano il profilo demografico
delle comunità dove lavorano. A Ferguson, teatro di sommosse nel 2014 dopo l'uccisione di un ragazzo nero disarmato da parte di un agente bianco, gli afroamericani erano il 67% dei residenti, ma
appena il 6% dei poliziotti. Gli afroamericani non sono più disposti a tollerare la brutalità e gli abusi delle forze dell'ordine perché non si capacitano di come il "racial profiling" possa
verificarsi sotto il primo presidente nero della storia. D’altro canto, l'esplosione di rivolte razziali velleitarie è anche l'esito del senso di impotenza e di frustrazione della popolazione
afroamericana che non si riconosce nelle istituzioni perché continua a esservi sottorappresentata. Oggi, nonostante la presenza di Obama alla Casa Bianca, non c'è un governatore nero in nessuno dei
50 Stati dell'Unione e sono afroamericani solo il 10% dei membri della Camera e appena 2 dei 100 senatori. Anche la percentuale dei giudici federali è attestata intorno al 10%, scendendo al di sotto
di questa soglia in alcuni distretti giudiziari dove la popolazione nera è maggiormente presente. Per esempio è l'8% del distretto che comprende Alabama, Georgia e Florida, dove gli afroamericani
sono il 22% dei residenti. Da questo punto di vista, Ferguson è ancora una volta un microcosmo che esprime il permanere della marginalità degli afroamericani. Nel 2014 sia il sindaco sia il capo
della polizia erano bianchi e gli afroamericani occupavano solo uno dei sette seggi nel consiglio municipale, benché fossero i due terzi dei residenti della cittadina.