di Francesco Pungitore*
Nel fluire di questo 2024, mi trovo spesso a riflettere su quanto il nostro presente sembra richiamare l’eco di un celebre passato letterario, quello delineato da George Orwell nel suo “1984”. Non mi riferisco tanto alla pervasività della sorveglianza, segno distintivo della nostra era, quanto alla diffusione di una “neolingua” che altera, a volte fino a sovvertirle, le realtà delle parole, dei contesti, delle intenzioni.
Recentemente, l'intervento del Papa sulla situazione in Ucraina ha offerto uno spaccato illuminante di questa tendenza. Le sue parole, che dipingono un quadro inequivocabile della tragedia in atto - un Paese trasformato in un cimitero di morti civili, in evidente difficoltà contro la forza imponente della Russia -, sono state rapidamente avvolte in un turbinio di interpretazioni, di “se” e di “ma”, come se quella chiarezza fosse “insopportabile” alle orecchie del nostro tempo.
Un episodio che rivela tanto della nostra civiltà. Riflettendo su quanto detto dal Pontefice, non si può fare a meno di pensare che le sue dichiarazioni abbiano degli antefatti ben precisi. Almeno tre. Mi riferisco: 1) alle intercettazioni del Cancelliere tedesco Olaf Scholz, che lasciavano trasparire la presenza sul terreno ucraino di truppe occidentali già in conflitto diretto contro la Russia; 2) alle ripetute richieste di Macron di invio “ufficiale” di soldati NATO a sostegno di Kiev; 3) alle parole di Ursula von der Leyen che invoca un'Europa armata e pronta per una guerra imminente. Questi eventi, presi insieme, delineano un contesto di crescente escalation che sembra ignorare le potenziali conseguenze devastanti di quanto prefigurato, a turno, dai citati leader europei. Ma è esattamente in questo scenario che si collocano le parole di Papa Francesco. La sua esortazione a Kiev a cercare vie di uscita onorevoli dal conflitto non è solo un appello per la pace; è un monito contro il pericolo di una deriva che potrebbe sfuggire a ogni controllo, trasformando l'Europa e, forse, il mondo intero in un teatro di devastazione su scala inimmaginabile.
Peraltro, un filo rosso lega la tragedia ucraina agli altri conflitti che insanguinano il nostro mondo: Israele e Hamas, le tensioni nel Mar Rosso. La complessità e la tragicità di questi eventi ci portano a una sola domanda: che cosa significa, oggi, parlare di guerra e di pace?
La “neolingua” del 2024, ci dice ad esempio che in Italia non siamo formalmente “in guerra”, ma impegnati in “operazioni di pace” e di “difesa” (soldati in missione in Libano, navi militari che incrociano nel Mar Rosso, armi inviate all’Ucraina). E mentre l'articolo 11 della nostra Costituzione ci invita a risolvere, sempre e comunque, le controversie internazionali con la diplomazia, ci troviamo a constatare, con una certa amarezza, che invece siamo immersi fino al collo in un conflitto globale.
C’è una tensione evidente tra il significato delle parole e la loro manipolazione. La richiesta del Papa di cercare una soluzione onorevole, che eviti di trasformare l'Europa in un deserto nucleare, risuona come un appello disperato a riscoprire un linguaggio di verità, un linguaggio che non si perda in interpretazioni, ma che affronti il nucleo duro dei nostri conflitti.
Bisognerebbe interrogarsi, a questo punto, sul nostro ruolo di cittadini liberi, consapevoli e attivi in questo scenario: siamo pronti a riconoscere la portata delle nostre azioni, a rifiutare la “neolingua” per abbracciare, di nuovo, parole in grado di ricercare, anche dolorosamente, la verità? Sono domande che non trovano risposte facili, ma risultano indispensabili, oggi, per costruire un futuro dove la pace non sia solo un'illusione, forgiata da una semantica svuotata del suo significato più profondo.
*giornalista professionista, docente di Filosofia, Storia, Scienze Umane e Tecniche di Comunicazione con Perfezionamento post-laurea in Tecnologie per l’Insegnamento e Master in Comunicazione Digitale. Direttore Tecnico dell’Osservatorio Nazionale Minori e Intelligenza Artificiale