di Francesco Pungitore
Tra le conseguenze “mediatiche” della quarantena spicca l'aumento esponenziale delle connessioni alle piattaforme dedicate allo streaming
video. Il che ha determinato il successo, a volte anche inaspettato, di particolari titoli, passati, invece, in sordina sia al cinema che sul tradizionale piccolo schermo. E' il caso, ad esempio, de
“Il buco” (titolo originale “El hoyo”), una recente proposta “Netflix” che ha conquistato un numero eccezionale di visualizzazioni, con conseguente esplosione di interesse, non solo
sulla stampa dedicata.
Si tratta di una stranissima pellicola spagnola, tra il genere horror e la fantascienza, firmata dal regista Galder Gaztelu-Urrutia. Un film che presenta tante metafore da decriptare,
soprattutto in chiave filosofica. Si scorgono, in senso generale, due possibili livelli interpretativi: il primo, essoterico, è molto evidente e ha un orientamento sociale, potremmo dire
marxista, con una chiara denuncia delle diseguaglianze prodotte dal consumismo capitalistico; il secondo, esoterico, è molto più complesso ed ha anch'esso basi filosofiche, ma anche psicologiche, più
profonde.
Avviso per chi legge, a scanso di equivoci: questa recensione, ovviamente, “spoilera” tutta la trama.
Dunque, iniziamo dall'ambientazione generale: cupa, claustrofobica. Tutta la storia si dipana all'interno di una sorta di prigione verticale.
Profonda centinaia di metri, è chiamata “la fossa”. In verità, non è un vero è proprio carcere perché in quel “buco” si entra volontariamente, potendo portare con sé anche un oggetto dal
mondo esterno. Così fa il protagonista Goreng (interpretato dall'attore Iván Massagué) che sceglie di tenersi una copia del “Don Chisciotte”.
Lo spazio surreale all'interno del quale si snoda il racconto è popolato da uomini e donne di tutte le razze che occupano i diversi livelli dell'edificio. Centinaia di celle, una sopra l'altra, e due
persone per ogni piano, selezionate in modo del tutto casuale.
Ma nella fossa non si resta sempre chiusi nella stessa stanza perché, periodicamente, l'autorità che governa l'edificio scambia i posti, senza un particolare criterio di meriti o colpe. Tutto
avviene casualmente.
Così può capitare di occupare, per un mese, uno dei primi livelli e, subito dopo, di risvegliarsi tra gli ultimi. Un fatto non privo di conseguenze. Stare, ad esempio, al decimo piano invece che al
duecentesimo può modificare radicalmente le possibilità di sopravvivenza. La struttura, infatti, è interamente attraversata da una voragine enorme, dalla quale passa una piattaforma che sorregge una
tavolata imbandita, quotidianamente rifornita dalla cucina che si trova sulla vetta dell'edificio, al piano zero.
Le vivande, tra cui spicca una preziosissima “panna cotta”, sostano ad ogni livello per pochi minuti e tutti possono mangiare ciò che vogliono ma senza conservare niente.
Piccola parentesi: il menu dello chef è creato in base alle richieste dei prigionieri stessi che, prima di essere rinchiusi, segnalano il proprio piatto preferito.
E' facile, però, immaginare quello che accade. Gli ospiti dei primi piani saccheggiano e divorano tutto il cibo a disposizione, lasciando poco o nulla a quelli dei piani inferiori che,
pertanto, vivono nella fame e nella disperazione, tra violenza, suicidi e cruenti episodi di cannibalismo.
Il protagonista, dopo l'iniziale ambientamento e dopo essere scampato egli stesso alla morte, con l'appoggio di un nuovo compagno di cella prova a cambiare le cose e dà vita a un tentativo
rivoluzionario “socialista” per consentire l'arrivo del cibo necessario anche ai piano più bassi. Scopre, inoltre, che nella fossa, nonostante sia vietato dal regolamento, è tenuta prigioniera anche
una bambina.
La salva e la colloca sulla piattaforma che sta per risalire velocemente nelle cucine.
Con quel gesto intende inviare, tramite la bambina stessa, un “messaggio” (di sfida o forse di testimonianza del radicale cambiamento avvenuto nella prigione?) alle autorità del piano zero.
Fin qui, la tesi fondamentale del film sembra essere palesemente incentrata sulle dinamiche oppressive che permeano la struttura capitalistica, dove l'arrivismo, generato dal circolo vizioso
della produzione e del consumo, è causa di sfruttamento e miseria per le masse, all'interno delle loro diverse stratificazioni sociali.
Ma mettiamo totalmente da parte questo aspetto della storia e concentriamoci, invece, sui simbolismi che il regista dissemina nelle varie scene. Le domande, in tal senso, sono davvero
tante.
1. Innanzitutto, perché nel buco (come si scoprirà solo alla fine) ci sono esattamente 333 piani?
2. Perché la strada per “risalire” richede una preliminare “discesa” fino in fondo?
3. Cosa o chi rappresentano i diversi personaggi che Goreng incontra nel corso della storia?
4. Perché la panna cotta (prima) e la bambina (dopo) sono un “messaggio” da lanciare ai piani alti dell'edificio?
Provando a ricollegare i vari punti, emerge un disegno nel quale il viaggio intrapreso da Goreng appare come una metafora,
psicologica e filosofica, dell'uomo “viandante” che ricerca sé stesso e il significato della propria esistenza.
Il film, in tal senso, può esser visto come il racconto di un percorso iniziatico. L'obiettivo finale del protagonista, quindi, non è che quello di aprirsi una via, un varco di liberazione
(certamente spirituale) dall'esistenza materiale mondana. E per farlo, deve immergersi nelle profondità, nell'abisso della propria anima.
L'idea stessa della prigione è un simbolismo filosofico che già i riti misterici dell'orfismo utilizzavano nell'indicare il corpo fisico appunto come “prigione” per l'anima (σῶμα =
σῆμα; corpo = tomba) da cui liberarsi attraverso segretissimi riti di purificazione.
I piani da attraversare dal vertice al fondo, dicevamo, sono 333. E cioè tre volte il 3. Che questo numero abbia una sua valenza “sacra” è ben noto. Sia in Oriente che in Occidente
rappresenta la perfezione divina, dalla Trimurti induista (Brahma, Shiva, Vishnu) alla Trinità del Cristianesimo che si esplica dal Padre al Figlio, per mezzo dello Spirito Santo. Nei Vangeli, la
Resurrezione avviene esattamente il terzo giorno. Fatto che indica la vita completa e nuova di cui Gesù si riveste.
Il sacro 3 appare, peraltro, fondamentale anche in un famosissimo racconto iniziatico, e cioè nella “Divina Commedia”, dove assume un valore simbolico fondamentale (tre cantiche, trentatré canti,
ecc.).
E non è peregrina l'ipotesi che proprio Dante possa essere stato una fonte d'ispirazione per il regista. Insomma, ripetere nel film il numero 3 per tre volte lascia intendere che non
sia stata una scelta del tutto casuale.
Questo insistere sul 3 può essere interpretato, forse, proprio come un richiamo all'anima umana, alla sua natura sacra, divina e alle profondità che essa nasconde.
Da questo punto di vista, quindi, si rafforza l'idea che l'oscuro viaggio intrapreso da Goreng non sia altro che la metafora dell'uomo individualizzato che cerca se
stesso.
E in quello spazio, in quella discesa, eccolo incontrare diverse figure, facce della sua stessa anima:
Infine, la bambina. Espressione dell'innocenza perduta e ritrovata, certamente, ma anche simbolo di un miracolo "alchemico". Persino in quel luogo di tenebre, è possibile preservare l'origine più fragile e preziosa della vita: non la panna cotta, ma l'anima pura caduta dal cielo e destinata alla salvezza, che di cibo “divino” si deve nutrire prima della sua ascesa finale.