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Moda, diritto e intelligenza artificiale: il futuro del fashion system secondo Stefania Gallo

Intervista alla fondatrice di Fashion Law Italia: tra tutela del brand, sostenibilità e nuove sfide giuridiche nell’era digitale della creatività.

di Francesco Pungitore

 

MILANO - Stefania Gallo è fondatrice di Fashion Law Italia e professionista specializzata in diritto della moda, della proprietà intellettuale e del lusso. La sua esperienza coniuga competenze giuridiche e sensibilità creativa, in un settore dove la tutela del brand e l’innovazione tecnologica diventano sempre più centrali.
La ritroviamo oggi per parlare di intelligenza artificiale, sostenibilità e nuove sfide etiche nel mondo del fashion system.

Stefania, partiamo da te: negli ultimi anni il diritto della moda ha visto trasformazioni profonde. Se guardi al tuo percorso e al progetto Fashion Law Italia, quali sono secondo te i cambiamenti più significativi che hai osservato nel rapporto tra creatività e diritto?

 

Nel mio percorso ho osservato un’evoluzione significativa nel rapporto tra creatività e diritto nel settore moda. In passato l’intervento giuridico veniva spesso percepito come reattivo, destinato a operare solo a seguito di una violazione o di un contenzioso. Oggi, in molte realtà, il presidio legale entra sin dalle prime fasi del processo creativo e progettuale, contribuendo alla definizione delle scelte strategiche e dialogando con innovazione tecnologica, gestione dei dati e nuovi modelli di collaborazione. L’esperienza con Fashion Law Italia ha confermato questa tendenza, ma anche evidenziato che il livello di maturità non è ancora omogeneo: se nelle maison questo approccio è ormai consolidato, tra numerose piccole e medie imprese persiste la visione del diritto come strumento da attivare “a problema sorto”. In realtà, l’anticipazione delle tutele consente di preservare valore creativo, prevenire rischi e costruire basi più solide per l’innovazione, non rallentando la creatività, ma rendendola più robusta e sostenibile nel tempo.

 

 

Parliamo di intelligenza artificiale: l’IA generativa sta modificando il modo di progettare, comunicare e produrre nel settore moda. Dal tuo punto di vista legale, quali opportunità e rischi vedi emergere per i designer e i brand italiani?

 

L’intelligenza artificiale generativa sta diventando un elemento strutturale nella moda, influenzando ideazione, prototipazione e comunicazione. Per i brand italiani si apre uno spazio interessante: processi creativi più rapidi, possibilità di testare collezioni e narrative in ambienti digitali, valorizzazione dell’archivio e, sul piano industriale, riduzione di tempi e materiali attraverso simulazioni virtuali. Parallelamente, l’AI permette di presidiare territori come gaming, realtà aumentata e showroom virtuali, estendendo lo sfruttamento degli asset immateriali oltre i canali tradizionali. Questa evoluzione richiede tuttavia un presidio legale puntuale. La tutela dell’opera rimane ancorata al contributo creativo umano, quindi occorre documentare ruoli e processi. L’uso improprio dei dataset può tradursi in appropriazione di stile o in concorrenza sleale, e la proliferazione di contenuti digitali aumenta il rischio di uso non autorizzato di segni distintivi. Gestione dei segreti industriali, contratti adeguati e controllo degli output diventano quindi strumenti essenziali per proteggere il capitale creativo e la reputazione del Made in Italy.

 

 

L’IA mette in crisi l’autorialità tradizionale. Come può un giurista oggi definire la “paternità” di un’opera creata — o co-creata — da un algoritmo? Esistono strumenti normativi già efficaci o il diritto deve ancora fare un passo avanti?

 

Nel quadro normativo vigente l’autorialità resta legata a un apporto creativo umano riconoscibile. L’intelligenza artificiale, anche quando opera con margini di imprevedibilità, è considerata uno strumento e non un soggetto titolare di diritti. Di conseguenza, la paternità dell’opera rimane in capo alla persona che ha effettivamente contribuito alla sua elaborazione, attraverso ideazione, direzione del processo e selezione dei risultati generati. La vera sfida, oggi, riguarda la prova di questo contributo. I processi creativi assistiti dall’AI diventano sempre più complessi e stratificati, e la linea tra intervento umano e generazione automatica tende ad assottigliarsi. Per questo acquistano centralità la documentazione del workflow, criteri chiari di tracciabilità e una contrattualistica adeguata, così da definire ruoli, responsabilità e diritti in modo trasparente.

È ragionevole aspettarsi un’evoluzione normativa e interpretativa in tal senso.

 

 

Il valore del marchio, oggi, è anche reputazionale.

In un’epoca di comunicazione digitale e trasparenza radicale, quanto contano etica e sostenibilità nella costruzione di un brand solido? E come il diritto può sostenerne la credibilità?

 

Oggi il valore di un marchio dipende anche dalla coerenza tra identità, comportamenti e promesse. Nella moda e nel lusso questo è particolarmente evidente: sostenibilità, rispetto della filiera e trasparenza sono fattori che incidono sulla fiducia di consumatori e investitori. Un brand può essere forte sul piano creativo e commerciale, ma perdere credibilità se i comportamenti non corrispondono ai valori dichiarati o se emergono pratiche opache lungo la supply chain. Le norme su comunicazione ambientale, tracciabilità e due diligence obbligano a dimostrare ciò che si dichiara. I contratti di filiera e le policy interne permettono di fissare regole chiare su diritti umani, materiali, processi e controllo dei fornitori. Strumenti come audit, certificazioni e sistemi di governance aiutano a dare concretezza agli impegni e a prevenire rischi di greenwashing o contenziosi. La compliance diventa parte integrante della costruzione della reputazione: tutela il marchio e, allo stesso tempo, contribuisce a legittimarlo nel lungo periodo.

 

 

Il concetto di “lusso responsabile” sta emergendo in molte aziende.

Secondo te, è una reale trasformazione culturale o ancora una strategia di marketing ben confezionata?

 

Esiste il rischio che l’espressione diventi un’etichetta aspirazionale più che una pratica consolidata. Se il racconto supera la sostanza, il concetto si riduce a operazione di marketing e apre la porta a contestazioni di greenwashing o purpose-washing. La differenza la fanno i fatti verificabili: standard misurabili, audit indipendenti, tracciabilità della filiera e coerenza contrattuale lungo la supply chain. Finché questi elementi non sono presenti, parlare di trasformazione culturale può risultare prematuro.

 

 

Molti giovani giuristi e creativi guardano al fashion lawcome un ambito in crescita.

Che consigli daresti a chi vuole intraprendere questo percorso oggi, tra studio, pratica e nuove competenze digitali?

 

Chi vuole avvicinarsi al fashion law deve certamente partire da una base solida di diritto, ma è altrettanto fondamentale conoscere davvero il settore, nelle sue sfumature e nelle sue gerarchie: moda e lusso non necessariamente coincidono, e all’interno del lusso convivono mondi diversi, dalla moda al beauty, dall’hospitality alla gioielleria, fino alle auto, agli yacht e ai beni culturali. Allo stesso modo, lavorare con una maison storica non è come affiancare una PMI italiana che sta costruendo la propria identità: richiede linguaggi, sensibilità e tempi diversi. Diventa quindi essenziale comprendere i processi creativi, il ciclo del prodotto, il valore dell’heritage e il funzionamento della filiera. Occorre sapersi confrontare con interlocutori molto diversi: direzioni creative e atelier, merchandising e sviluppo prodotto, team digital e innovazione, sostenibilità, comunicazione, legal e produzione. Chi entra oggi in questo ambito deve capire l’industria, interpretarne l’evoluzione digitale e tradurre complessità giuridiche in soluzioni che dialogano con la creatività e sostengono il business nel lungo periodo.

 

 

L’Italia resta un punto di riferimento mondiale per la moda.

Cosa distingue, a tuo avviso, il nostro approccio giuridico e culturale rispetto a quello di altri Paesi?

 

L’Italia rimane un riferimento perché il nostro sistema tutela l’intero ecosistema culturale che circonda il prodotto moda. La nostra filiera è fatta di grandi maison e di una rete di piccole e medie imprese che custodiscono competenze uniche. Questo richiede una sensibilità giuridica capace di dialogare con realtà molto diverse e di difendere un patrimonio fatto di competenze, archivi, tecniche produttive e legami territoriali. Altri Paesi puntano soprattutto su scala, tecnologia o branding globale; noi abbiamo costruito un modello che unisce creatività, tradizione, qualità manifatturiera e tutela del patrimonio culturale.

 

 

E per chiudere con una visione: come immagini il futuro del diritto della moda tra dieci anni? Più tecnologico, più etico… o entrambe le cose?

 

Tra dieci anni il diritto della moda sarà inevitabilmente più tecnologico e più etico insieme, perché le due dimensioni non sono alternative. L’innovazione digitale continuerà a incidere sulla creazione, sulla produzione e sulla distribuzione, con implicazioni che richiederanno regole più precise. Parallelamente crescerà l’attenzione verso responsabilità sociale, sostenibilità e trasparenza lungo la filiera, come requisito competitivo e regolatorio. [04.11.2025]

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