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Essere umani: una riflessione filosofica nell'era dell'intelligenza artificiale

La tecnologia, con la sua apparente perfezione algoritmica, ci costringe a un confronto serrato con la nostra imperfezione

di Francesco Pungitore*

 

L'essere umano si distingue nel regno dei viventi per una caratteristica fondamentale: la consapevolezza della propria fragilità. La fragilità umana si manifesta in molteplici dimensioni: fisica, emotiva, cognitiva. Siamo esseri finiti, temporalmente limitati, costantemente esposti alla possibilità dell'errore e del fallimento. E mai come oggi, nell'era dell'intelligenza artificiale, la questione del “limite” per l'essere umano si pone con estrema urgenza filosofica. Ci troviamo di fronte a un paradosso esistenziale: mentre sviluppiamo tecnologie sempre più sofisticate che sembrano superare i nostri confini naturali, emergiamo ancora più chiaramente nella nostra essenziale vulnerabilità. L'intelligenza artificiale, con la sua apparente perfezione algoritmica, ci costringe a un confronto serrato con la nostra imperfezione. 

Tra angoscia e alienazione

La psiche umana si trova oggi in una condizione di particolare tensione. Da un lato, sperimentiamo un'espansione senza precedenti delle nostre capacità cognitive attraverso la tecnologia; dall'altro, questa stessa espansione genera nuove forme di angoscia e alienazione.

Il fenomeno della “tecno-ansia” è emblematico di questa condizione: ci potenziamo attraverso la tecnologia, ma temiamo di perdere qualcosa di noi stessi, di essenzialmente umano. Inoltre, la psicologia del profondo ci insegna che l'essere umano è fondamentalmente un essere di relazione. La nostra coscienza si forma attraverso l'interazione con l'altro, in un processo di continua negoziazione tra il sé e il mondo. In questo contesto, l'intelligenza artificiale introduce un nuovo tipo di “altro”, un interlocutore non-umano che sfida le nostre categorie tradizionali di comprensione della relazione.

 

Essere autenticamente “umani”

In questo scenario complesso, la ricerca dell'autenticità emerge come questione centrale. Essere autenticamente umani significa accettare la propria imperfezione come condizione costitutiva, non come limite da superare. La vera sfida non è emulare la perfezione delle macchine, ma coltivare quelle qualità umane che nascono proprio dalla nostra imperfezione, come la capacità di dubitare e di meravigliarsi. L'autenticità umana si manifesta nella capacità di abitare l'incertezza, di navigare l'ambiguità, di trovare significato nel non-senso. Sono queste le qualità che nessun algoritmo può replicare, perché nascono proprio da quella fragilità che caratterizza la condizione umana.

 

Accettare la finitudine

Emerge quindi la necessità di una nuova etica dell'essere umano, che non si fondi sul mito della perfezione tecnologica, ma sulla valorizzazione della nostra essenziale vulnerabilità. Un'etica che riconosca nella fragilità non un difetto da correggere, ma una risorsa da coltivare. Questa nuova etica deve basarsi sull’accettazione della finitudine come nostra condizione generativa, fondamentale. Essere umani nell'era dell'intelligenza artificiale significa quindi abbracciare una paradossale condizione: quanto più la tecnologia ci spinge verso la perfezione, tanto più dobbiamo riscoprire il valore della nostra imperfezione. Non si tratta di rifiutare il progresso tecnologico, ma di integrarlo in una visione più ampia dell'essere umano, che includa e valorizzi la nostra essenziale fragilità.

 

Conclusioni

La vera sfida del nostro tempo non è superare i limiti dell'umano, ma approfondirne il significato, riscoprendo in ciò che ci rende vulnerabili la fonte stessa della nostra unicità. Solo accettando pienamente la nostra condizione di esseri finiti e imperfetti possiamo sviluppare quelle qualità che ci rendono autenticamente umani. Come scriveva Martin Heidegger in “Essere e Tempo”: “L'essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia... Ma l'angoscia, come situazione emotiva fondamentale dell'Esserci, costituisce l'apertura dell'Esserci al suo essere più proprio” (Essere e Tempo, 1927 - Parte II, Capitolo 2 - § 53 e seguenti). In questa profonda intuizione del filosofo tedesco troviamo conferma che è proprio la consapevolezza della nostra finitudine a renderci capaci di un'esistenza autentica.

La tecnologia e l'intelligenza artificiale non sono dunque strumenti per trascendere la nostra umanità, ma opportunità per comprenderla più profondamente. Nel confronto con le macchine, paradossalmente, riscopriamo il valore inestimabile delle nostre imperfezioni: la capacità di dubitare e di sbagliare, di provare empatia e compassione, di creare significato dall'incertezza. Sono proprio questi “limiti” a definire la grandezza della condizione umana, una grandezza che non risiede nella perfezione, ma nella capacità di trovare bellezza e senso nella nostra intrinseca vulnerabilità.

 

*giornalista professionista, docente di Filosofia, Storia, Psicologia, Scienze Umane e Tecniche di Comunicazione con Perfezionamento post-laurea in Tecnologie per l’Insegnamento e Master in Comunicazione Digitale. Direttore Tecnico dell’Osservatorio Nazionale Minori e Intelligenza Artificiale

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