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Tecnologie della comunicazione e trasformazione dei processi cognitivi

Come i media riconfigurano le strutture stesse dell'esperienza, dell'identità, della temporalità e della socialità

di Francesco Pungitore*

 

CAPITOLO I: FONDAMENTI TEORICI DELLA RELAZIONE TRA MEDIUM E COMUNICAZIONE

1.1 L'eredità teorica di Marshall McLuhan: analisi del paradigma “il medium è il messaggio”

Il paradigma “il medium è il messaggio”, formulato da Marshall McLuhan nel suo “Understanding Media: The Extensions of Man” (1964), rappresenta il fondamento epistemologico di qualsiasi analisi contemporanea dell'impatto delle tecnologie comunicative sulla cognizione umana. La profondità teoretica di questa asserzione risiede nella sua apparente paradossalità: McLuhan sostiene che non è il contenuto veicolato dal medium a determinare il suo impatto sulla società, bensì la natura stessa del medium in quanto struttura che modifica le modalità percettive, cognitive e relazionali degli individui.

McLuhan elabora una teoria dei media come “estensioni” dell'apparato sensorio umano. La ruota è un'estensione del piede, il libro un'estensione dell'occhio, il telefono un'estensione dell'orecchio. Queste estensioni alterano il “rapporto sensoriale” dell'uomo con il mondo, modificando l'equilibrio tra i sensi e, conseguentemente, la struttura della coscienza. In questa prospettiva, ogni medium introduce un “bias” cognitivo che rimodula l'organizzazione percettiva dell'esperienza.

La distinzione tra media “caldi” e “freddi” rappresenta un'ulteriore articolazione della teoria mcluhaniana. I media caldi (come la radio, il cinema, la fotografia) sono caratterizzati da un'alta definizione informativa e da un basso grado di partecipazione da parte del fruitore; i media freddi (come il telefono, la televisione, i fumetti) presentano invece una bassa definizione informativa e richiedono un alto grado di completamento da parte dell'utente. Questa categorizzazione evidenzia come diverse tecnologie comunicative richiedano differenti modalità di processamento cognitivo.

L'analisi di McLuhan si configura come una vera e propria “ecologia mediale”, in cui ogni nuovo medium non si limita a coesistere con i precedenti, ma ne altera profondamente il significato e la fruizione. L'avvento della televisione, ad esempio, non ha semplicemente affiancato il libro, ma ha modificato la natura stessa dell'esperienza di lettura, inscrivendola in un nuovo contesto percettivo dominato dall'immediatezza e dalla simultaneità.

La comprensione dei media come “ambienti” cognitivi, piuttosto che come meri strumenti, costituisce il lascito più prezioso della teoria mcluhaniana. Secondo questa prospettiva, i media creano specifici “ambienti” che, come l'acqua per i pesci, risultano invisibili fintanto che non emergono nuovi media che li rendono percepibili. Questa “invisibilità” dei media dominanti rappresenta una sfida epistemologica fondamentale per qualsiasi analisi critica della comunicazione.

1.2 La mediamorfosi come processo evolutivo: dalla scrittura ai media digitali

Il concetto di “mediamorfosi”, elaborato da Roger Fidler (1997), offre una prospettiva evoluzionistica sui processi di trasformazione mediale. Secondo Fidler, i nuovi media non emergono spontaneamente e indipendentemente, ma derivano dalla metamorfosi dei media precedenti, in un processo di coevoluzione e coesistenza. Questa visione sistemica permette di superare l'approccio deterministico e di analizzare i media come un sistema complesso e interconnesso.

I principi fondamentali della mediamorfosi includono la coevoluzione e la coesistenza (i vari media si sviluppano insieme e continuano a esistere in relazione reciproca), la metamorfosi (i nuovi media emergono gradualmente dalla trasformazione dei precedenti), la propagazione (i nuovi media adottano e trasmettono caratteristiche dominanti dei precedenti), la sopravvivenza (i media si adattano e si trasformano in risposta a nuove condizioni), l'opportunità e la necessità (le nuove tecnologie emergono quando vengono percepite come vantaggiose), e l'adozione ritardata (le nuove tecnologie richiedono tempo per essere pienamente integrate).

L'evoluzione dalla scrittura cuneiforme ai media digitali illustra questo processo metamorfico. La scrittura, come prima tecnologia di esternalizzazione del pensiero, ha riconfigurato radicalmente i processi cognitivi umani. L'invenzione della stampa a caratteri mobili ha successivamente democratizzato l'accesso alla conoscenza scritta, favorendo l'emergere della lettura silenziosa e individuale, e modificando le strutture cognitive dell'uomo occidentale. Le tecnologie elettriche ed elettroniche hanno ulteriormente accelerato questo processo, riducendo le distanze spazio-temporali e favorendo forme di comunicazione sincroniche e diacroniche.

L'avvento dei media digitali rappresenta una fase ulteriore di questa evoluzione, caratterizzata dalla convergenza, dall'interattività e dalla multimedialità. La natura ipertestuale dell'ambiente digitale introduce una modalità di organizzazione della conoscenza non-lineare, che trasforma i processi di lettura, scrittura e pensiero. La convergenza tecnologica, inoltre, ridefinisce i confini tra i diversi media, creando un ambiente comunicativo integrato in cui le distinzioni tradizionali (scritto/orale, visivo/testuale) vengono continuamente rinegoziare.

Questo approccio evolutivo consente di analizzare i cambiamenti cognitivi non come rotture radicali, ma come adattamenti graduali a nuovi ecosistemi mediali. L'analisi della mediamorfosi evidenzia come ogni tecnologia comunicativa conservi elementi delle precedenti, riconfigurandoli in nuove sintesi. La pagina web, ad esempio, mantiene elementi della pagina stampata, ma li integra con le potenzialità dell'ambiente digitale (ipertestualità, multimedialità, interattività).

1.3 Walter Ong e il passaggio dall'oralità alla scrittura: implicazioni cognitive

L'analisi di Walter J. Ong sul passaggio dall'oralità alla scrittura, elaborata in “Orality and Literacy: The Technologizing of the Word” (1982), offre un framework teorico fondamentale per comprendere l'impatto cognitivo delle tecnologie della comunicazione. Ong distingue tra “oralità primaria” (propria delle culture prive di qualsiasi conoscenza della scrittura), “oralità secondaria” (emergente nell'era elettronica) e cultura della scrittura, evidenziando come ciascuna configuri specifiche modalità cognitive.

Nelle culture a oralità primaria, la conoscenza è conservata attraverso formule mnemoniche, ripetizioni, proverbi e narrazioni. Il pensiero è situazionale piuttosto che astratto, aggregativo piuttosto che analitico, empatico e partecipativo piuttosto che oggettivamente distanziato. La memoria opera attraverso strutture narrative e formulaiche, in un contesto di immediata interazione sociale. Il sapere è inscindibile dal soggetto conoscente e dal contesto di enunciazione.

L'introduzione della scrittura alfabetica ha comportato una profonda ristrutturazione dei processi cognitivi. La scrittura, esternalizzando il pensiero, ha permesso lo sviluppo del pensiero analitico, dell'astrazione, della categorizzazione gerarchica e della logica formale. La linearità del testo scritto ha favorito lo sviluppo di un pensiero sequenziale e causale, mentre la permanenza della parola scritta ha permesso forme di riflessività e di auto-correzione precedentemente impossibili.

Ong sottolinea come la scrittura abbia trasformato non solo le modalità di conservazione della conoscenza, ma la struttura stessa della coscienza. La scrittura introduce una distanza tra l'autore e il testo, tra il significante e il significato, creando le condizioni per l'emergere di una soggettività riflessiva. Il testo scritto, separato dal suo contesto di produzione, richiede e sviluppa capacità interpretative specifiche.

Particolarmente rilevante è l'analisi di Ong sui processi di “interiorizzazione” della tecnologia della scrittura: non è sufficiente l'acquisizione di una tecnica, ma è necessaria una profonda ristrutturazione degli schemi mentali. La scrittura diventa una “tecnologia interiorizzata” che modifica irreversibilmente le strutture cognitive, anche quando non viene attivamente utilizzata.

L'avvento dei media elettronici e digitali ha inaugurato, secondo Ong, un'era di “oralità secondaria”, che recupera alcuni elementi dell'oralità primaria (immediatezza, partecipazione, senso comunitario) ma li inserisce in un contesto profondamente influenzato dalla cultura della scrittura. Questa nuova configurazione mediale comporta ulteriori trasformazioni cognitive, caratterizzate dalla simultaneità, dalla frammentazione e dalla destrutturazione della linearità testuale.

1.4 Prospettive semiotiche: il medium come sistema simbolico e culturale

L'approccio semiotico offre strumenti teorici fondamentali per analizzare i media come sistemi simbolici che mediano la relazione tra l'uomo e la realtà. Nella prospettiva della semiotica strutturale di Roland Barthes e Umberto Eco, ogni medium costituisce un sistema di significazione che organizza l'esperienza attraverso specifici codici e convenzioni.

Secondo la distinzione fondamentale introdotta da Charles S. Peirce tra icona, indice e simbolo, i diversi media possono essere analizzati in base alle modalità di relazione tra significante e significato che privilegiano. La fotografia, ad esempio, stabilisce una relazione principalmente indicale (basata sulla contiguità fisica) con la realtà rappresentata, mentre il linguaggio verbale opera principalmente a livello simbolico (basato su convenzioni arbitrarie).

Questa categorizzazione permette di analizzare come i diversi media configurino specifiche relazioni cognitive con la realtà. I media visivi privilegiano modalità di cognizione basate sull'immediatezza percettiva e sulla simultaneità, mentre i media verbali favoriscono processi analitici e sequenziali. L'ambiente multimediale contemporaneo integra queste diverse modalità, creando configurazioni ibride che richiedono competenze interpretative complesse.

La nozione di “enciclopedia” elaborata da Umberto Eco risulta particolarmente pertinente per analizzare i processi interpretativi nell'ecosistema mediale contemporaneo. L'enciclopedia rappresenta il patrimonio di conoscenze, credenze e competenze interpretative condivise da una comunità culturale. I media digitali, con la loro struttura reticolare e ipertestuale, possono essere considerati come materializzazioni dell'enciclopedia, che permettono nuove modalità di navigazione e attualizzazione del sapere.

Il concetto di “rimediazione” elaborato da Bolter e Grusin (1999) offre un'ulteriore prospettiva semiotica sull'evoluzione mediale. Secondo questa teoria, ogni nuovo medium riconfigura i media precedenti, oscillando tra strategie di “immediatezza” (che mirano a far dimenticare la presenza del medium) e “ipermediazione” (che enfatizzano la presenza del medium). Questa dialettica evidenzia come ogni medium costruisca specifiche modalità di accesso alla realtà, configurando regimi di verità e autenticità in continua evoluzione.

La semiotica multimodale di Gunther Kress e Theo van Leeuwen analizza inoltre come i diversi sistemi semiotici (verbale, visivo, sonoro) interagiscano nei testi multimediali, creando significati che non sono riducibili alla somma dei singoli elementi. Questa prospettiva risulta fondamentale per analizzare l'ambiente comunicativo contemporaneo, caratterizzato dalla convergenza di diverse modalità semiotiche.

1.5 L'approccio socio-costruttivista alle tecnologie della comunicazione

La prospettiva socio-costruttivista, sviluppata da autori come Bruno Latour, John Law e Michel Callon nell'ambito della Actor-Network Theory (ANT), offre un paradigma interpretativo che supera sia il determinismo tecnologico sia il determinismo sociale. Secondo questa prospettiva, le tecnologie comunicative non sono né semplici strumenti neutrali né forze autonome che determinano unilateralmente i cambiamenti sociali e cognitivi.

La ANT concepisce le tecnologie come “attanti” all'interno di reti socio-tecniche complesse, in cui umani e non-umani interagiscono costantemente. I media non sono semplici intermediari, ma mediatori che trasformano, traducono e modificano il significato degli elementi che veicolano. Questa visione permette di superare la dicotomia tra determinismo tecnologico e determinismo sociale, concependo tecnologia e società come co-costruite in processi di mutua definizione.

Il concetto di “affordance”, introdotto da James J. Gibson e sviluppato da Donald Norman, risulta particolarmente utile in questo contesto. Le affordance rappresentano le possibilità d'azione che un ambiente o un oggetto offrono a un soggetto dotato di specifiche capacità. I media, in questa prospettiva, non determinano meccanicamente comportamenti, ma offrono specifiche affordance che vengono attualizzate in modo diverso in base ai contesti socio-culturali e alle competenze degli utenti.

La “Social Construction of Technology” (SCOT) di Wiebe Bijker e Trevor Pinch evidenzia come le tecnologie acquisiscano significato all'interno di specifici “frame tecnologici” condivisi da “gruppi sociali rilevanti”. Questi frame includono obiettivi, problemi chiave, strategie di problem solving, teorie, conoscenze tacite e pratiche d'uso che orientano lo sviluppo e l'interpretazione delle tecnologie. Le tecnologie comunicative vengono così concettualizzate come oggetti socio-tecnici dotati di “flessibilità interpretativa”, il cui significato si stabilizza attraverso processi di negoziazione sociale.

Particolarmente rilevante è l'analisi di Sherry Turkle sul rapporto tra tecnologie comunicative e costruzione dell'identità. Nelle sue opere “Life on the Screen” (1995) e “Alone Together” (2011), Turkle esplora come i media digitali configurino nuove modalità di presentazione del sé e di relazione interpersonale. L'identità, in questa prospettiva, non è una struttura stabile, ma un processo performativo che si articola attraverso pratiche mediate tecnologicamente.

La “domestication theory” di Roger Silverstone offre un ulteriore framework per analizzare i processi attraverso cui le tecnologie comunicative vengono integrate nella vita quotidiana. Questo approccio identifica diverse fasi (appropriazione, oggettivazione, incorporazione, conversione) attraverso cui le tecnologie vengono trasformate da oggetti estranei in elementi significativi delle pratiche quotidiane. Le tecnologie comunicative non solo modificano pratiche esistenti, ma contribuiscono a crearne di nuove, in un processo continuo di co-evoluzione tra pratiche sociali e tecnologie.


Le prospettive teoriche presentate in questo capitolo, pur nella loro diversità, convergono nel riconoscere la natura co-evolutiva della relazione tra tecnologie comunicative, processi cognitivi e strutture sociali. Ogni medium, come sottolineato da McLuhan, non è un semplice veicolo neutrale, ma un ambiente che rimodula i processi percettivi e cognitivi. L'analisi di queste trasformazioni richiede approcci multidisciplinari che integrino prospettive mediali, cognitive, semiotiche e socio-culturali, superando dicotomie semplicistiche tra determinismo tecnologico e determinismo sociale.

CAPITOLO II: EVIDENZE EMPIRICHE DELLE MODIFICAZIONI COGNITIVE INDOTTE DAI MEDIA

2.1 Neuroplasticità e adattamento cerebrale: studi neuroscientifici sull'uso dei media

Il concetto di neuroplasticità, fondamentale nelle neuroscienze contemporanee, offre una cornice interpretativa essenziale per comprendere gli effetti delle tecnologie mediali sul cervello umano. La neuroplasticità si riferisce alla capacità del sistema nervoso di modificare la propria struttura e funzionalità in risposta a stimoli ambientali, apprendimento ed esperienze. Questa proprietà, particolarmente evidente durante lo sviluppo ma presente per tutto l'arco della vita, costituisce il substrato biologico delle modificazioni cognitive indotte dai media.

Gli studi di neuroimaging funzionale (fMRI, PET, EEG) hanno documentato modificazioni significative nell'attività cerebrale in relazione all'uso prolungato di diverse tecnologie mediali. Small e collaboratori (2020) hanno evidenziato come l'uso intensivo di Internet attivi circuiti neurali differenti rispetto alla lettura tradizionale, con un coinvolgimento maggiore delle aree prefrontali associate al decision-making e al processamento rapido delle informazioni, e un minor coinvolgimento delle aree temporali associate all'elaborazione semantica profonda e alla memoria.

Particolarmente significativi sono gli studi condotti da Maryanne Wolf (2018) sulle modificazioni neurali associate alla lettura. Wolf ha documentato come l'apprendimento della lettura comporti una “riciclaggio neurale” di aree cerebrali originariamente dedicate al riconoscimento degli oggetti, che vengono riutilizzate per il riconoscimento dei caratteri scritti. Questa plasticità, che ha permesso l'emergere di quello che Dehaene (2009) definisce “cervello lettore”, si configura ora in modi diversi in relazione ai differenti supporti di lettura, con pattern di attivazione cerebrale distinti tra la lettura su carta e quella su schermo.

Le ricerche di Nicholas Carr (2011), basate sugli studi neuroscientifici di Michael Merzenich, dimostrano come l'uso intensivo di tecnologie digitali favorisca lo sviluppo di specifici circuiti neurali associati all'elaborazione rapida e parallela delle informazioni, al multitasking e allo scanning visivo, mentre potrebbe indebolire i circuiti associati all'attenzione sostenuta, alla lettura profonda e alla riflessione. Questa “neuroplasticità competitiva” implica che il potenziamento di alcune reti neurali avvenga a scapito di altre, con conseguenze cognitive significative.

Gli studi longitudinali di Kühn et al. (2014) hanno documentato modificazioni strutturali in aree cerebrali specifiche in relazione all'uso di videogiochi. I ricercatori hanno rilevato un aumento di materia grigia nell'ippocampo destro, nello striato ventrale e nella corteccia prefrontale dorsolaterale dopo un periodo di gaming intensivo, evidenziando come specifiche pratiche mediali possano indurre cambiamenti morfologici nel cervello.

La ricerca di Loh e Kanai (2014) ha evidenziato correlazioni significative tra l'uso di specifici media digitali e variazioni nella densità di materia grigia in diverse regioni cerebrali. L'uso intensivo dei social media è risultato associato a variazioni volumetriche nell'amigdala e in altre strutture limbiche coinvolte nell'elaborazione delle emozioni e nelle relazioni sociali, suggerendo un impatto di questi media sulla cognizione sociale e sull'elaborazione emotiva.

Le ricerche neuroscientifiche sul multitasking mediale condotte da Ophir, Nass e Wagner (2009) hanno dimostrato che gli “heavy media multitaskers” mostrano pattern di attivazione cerebrale caratterizzati da un'aumentata sensibilità agli stimoli irrilevanti e da una ridotta capacità di filtraggio attentivo. Questi soggetti presentano alterazioni nell'attività della corteccia prefrontale, con conseguenze sulla gestione dell'informazione e sul controllo esecutivo.

Questi dati neuroscientifici suggeriscono che l'interazione con diversi ecosistemi mediali non si limita a modificare comportamenti e abitudini, ma riconfigura le strutture neurali stesse, evidenziando la profonda interpenetrazione tra tecnologie della comunicazione e substrato biologico della cognizione.

2.2 La lettura digitale vs. lettura tradizionale: modificazioni nei processi di comprensione e memorizzazione

La transizione dalla lettura su supporti cartacei alla lettura su supporti digitali rappresenta un campo di ricerca particolarmente significativo per comprendere l'impatto dei media sui processi cognitivi. Numerosi studi empirici hanno evidenziato differenze sostanziali nelle modalità di lettura, comprensione e memorizzazione tra i diversi supporti.

La meta-analisi condotta da Delgado et al. (2018), che ha esaminato 54 studi con oltre 170.000 partecipanti, ha evidenziato un consistente “screen inferiority effect”: la comprensione di testi complessi risulta significativamente inferiore quando la lettura avviene su schermo rispetto alla carta, particolarmente in condizioni di lettura sotto pressione temporale e quando il testo contiene informazioni concettuali complesse. Questo effetto appare più marcato per testi informativi rispetto a testi narrativi e per compiti che richiedono una memoria dettagliata dei contenuti.

Baron (2015), attraverso una serie di studi cross-culturali, ha documentato differenze significative nelle strategie di lettura tra supporti cartacei e digitali. La lettura su schermo risulta associata a un maggiore skimming (lettura superficiale), a una velocità di lettura aumentata e a una minore rilettura di passaggi complessi. Baron rileva anche una maggiore difficoltà nella costruzione di “mappe mentali” del testo durante la lettura digitale, con conseguenze sulla capacità di localizzare e recuperare informazioni specifiche.

Le ricerche di Ackerman e Goldsmith (2011) hanno evidenziato differenze metacognitive significative: i lettori tendono a sovrastimare la propria comprensione quando leggono su schermo, un fenomeno definito “illusione di comprensione”. Questo bias metacognitivo comporta strategie di studio meno efficaci e una regolazione inadeguata dello sforzo cognitivo durante la lettura digitale.

Mangen et al. (2013) hanno esaminato le differenze nella comprensione del testo narrativo tra supporti cartacei e digitali, evidenziando come la lettura su carta favorisca una migliore comprensione della struttura temporale e causale della narrazione. Questo vantaggio è stato attribuito all'esperienza aptica e spaziale offerta dal libro fisico, che fornisce riferimenti spaziali utili alla costruzione di rappresentazioni mentali coerenti.

Significativi sono anche gli studi sulla memoria spaziale del testo condotti da Mangen, Walgermo e Brønnick (2015). I ricercatori hanno rilevato che la “mappatura cognitiva” del testo, ovvero la capacità di ricordare la localizzazione spaziale delle informazioni, risulta significativamente migliore nella lettura su carta. Questa “memoria spaziale del testo” facilita il recupero delle informazioni e supporta l'integrazione dei contenuti in strutture di conoscenza coerenti.

Le ricerche di Mueller e Oppenheimer (2014) sul prendere appunti hanno evidenziato differenze cognitive significative tra la scrittura manuale e la digitazione. Gli studenti che prendono appunti a mano mostrano una maggiore elaborazione concettuale e una migliore performance nei test di comprensione rispetto a quelli che usano dispositivi digitali, suggerendo che il medium utilizzato influenza non solo le modalità di registrazione, ma anche i processi di elaborazione cognitiva dell'informazione.

Studi più recenti condotti da Singer e Alexander (2017) hanno tuttavia evidenziato come le differenze tra lettura cartacea e digitale siano modulate da fattori quali la familiarità con i dispositivi digitali, il genere testuale, lo scopo della lettura e le caratteristiche specifiche dell'interfaccia. Questi risultati suggeriscono che l'impatto cognitivo dei media non è determinato esclusivamente dalle proprietà intrinseche del supporto, ma emerge dall'interazione tra tecnologia, tipologia testuale, contesto e caratteristiche individuali.

Il concetto di “lettura profonda”, elaborato da Maryanne Wolf, risulta particolarmente rilevante in questo contesto. La lettura profonda comprende processi quali l'attivazione di conoscenze background, l'inferenza, l'analisi critica, l'empatia e la riflessione personale. Wolf suggerisce che questi processi, sviluppatisi in relazione alla lettura su carta, potrebbero essere ostacolati dall'ambiente digitale, che tende a favorire la velocità a scapito della profondità.

2.3 Attenzione distribuita e multitasking: conseguenze cognitive dell'ipertestualità

L'ambiente mediale contemporaneo, caratterizzato dall'ipertestualità, dalla multimedialità e dalla connettività permanente, ha comportato modificazioni significative nei processi attentivi. L'architettura non-lineare dell'ipertesto favorisce modalità di navigazione informativa caratterizzate dalla frammentazione e dalla rapida riconfigurazione del focus attentivo, con conseguenze cognitive rilevanti.

Gli studi seminali di Ophir, Nass e Wagner (2009) sul “media multitasking” hanno documentato differenze significative nei processi attentivi tra “heavy media multitaskers” (individui che abitualmente utilizzano simultaneamente più media) e “light media multitaskers”. Contrariamente alle aspettative, i multitasker abituali mostrano performance inferiori in compiti che richiedono il filtraggio di stimoli irrilevanti, lo switching attentivo e la memoria di lavoro. Questi risultati suggeriscono che l'esposizione prolungata a ambienti mediali caratterizzati dalla frammentazione attentiva possa comportare modificazioni nelle strategie di elaborazione dell'informazione, con una tendenza alla processazione parallela ma superficiale piuttosto che seriale e approfondita.

Le ricerche di Gloria Mark e collaboratori (2016) hanno evidenziato come i pattern di attenzione negli ambienti digitali siano caratterizzati da una elevata frammentazione: gli utenti cambiano attività in media ogni 3 minuti, con interruzioni frequenti dovute a notifiche, email e social media. Questo continuo “task-switching” comporta un significativo “costo cognitivo” dovuto alla necessità di riconfigurare le risorse attentive, con conseguenze sulla profondità di elaborazione dell'informazione e sull'efficienza cognitiva complessiva.

Daniel Levitin (2015), sulla base di studi neuroscientifici, ha evidenziato come il multitasking attivi il rilascio di dopamina e adrenalina, creando una sorta di “dipendenza dall'interruzione” che rende progressivamente più difficile mantenere l'attenzione focalizzata. Questo fenomeno, definito “switching addiction”, comporta modificazioni neurochimiche che influenzano i circuiti della ricompensa e dell'attenzione.

Gli studi di Cain e Mitroff (2011) hanno identificato differenze nei “filtri attentivi” tra heavy e light media multitaskers: i primi tendono ad adottare un filtraggio tardivo (late selection), che comporta l'elaborazione di un maggior numero di stimoli ma a un livello più superficiale, mentre i secondi privilegiano un filtraggio precoce (early selection), che comporta una maggiore selettività ma una processazione più profonda degli stimoli selezionati.

Le ricerche di Zhu et al. (2016) sul “cost of knowing” hanno evidenziato come la semplice presenza di informazioni potenzialmente accessibili (ad esempio notifiche non lette o link correlati in un ipertesto) comporti un carico cognitivo significativo, anche quando queste informazioni non vengono effettivamente consultate. Questo fenomeno, definito “information pollution”, suggerisce che l'architettura ipertestuale del web, caratterizzata dalla presenza continua di opzioni informative alternative, possa sovraccaricare i sistemi attentivi anche in assenza di un multitasking esplicito.

Particolarmente rilevante è il concetto di “continual partial attention” elaborato da Linda Stone (2007), che descrive una modalità attentiva caratterizzata da uno stato di allerta permanente e da un monitoraggio continuo di molteplici canali informativi. Questa modalità, distinta dal multitasking finalizzato all'efficienza, è motivata dal desiderio di non perdere opportunità informative e relazionali, e comporta uno stato di attivazione cognitiva continua che può risultare cognitivamente ed emotivamente dispendioso nel lungo termine.

Le ricerche di Posner e Rothbart (2014) sui sistemi attentivi suggeriscono che l'esposizione prolungata a ambienti mediali caratterizzati dalla frammentazione informativa possa influenzare lo sviluppo dei circuiti neurali associati all'attenzione esecutiva, fondamentale per l'autoregolazione cognitiva ed emotiva. Questa prospettiva suggerisce implicazioni potenzialmente significative per lo sviluppo cognitivo nell'era digitale.

Questi dati empirici, nel loro complesso, suggeriscono che l'architettura ipertestuale e multimediale dell'ecosistema mediale contemporaneo non si limita a modificare le strategie attentive contingenti, ma potrebbe comportare trasformazioni più profonde nei sistemi attentivi, con conseguenze sulla profondità di elaborazione dell'informazione, sulla capacità di riflessione sostenuta e sull'integrazione coerente della conoscenza.

2.4 L'esternalizzazione della memoria: come i dispositivi digitali riconfigurano i processi mnemonici

L'integrazione dei dispositivi digitali nelle pratiche quotidiane ha comportato una significativa riconfigurazione dei processi mnemonici, con l'emergere di forme di “memoria esternalizzata” o “memoria transattiva” che modificano le strategie di codifica, archiviazione e recupero dell'informazione.

Gli studi seminali di Sparrow, Liu e Wegner (2011) sul “Google effect” hanno documentato come la disponibilità permanente di informazioni online modifichi le strategie mnemoniche: i soggetti tendono a ricordare dove trovare l'informazione (memory for location) piuttosto che l'informazione stessa (memory for content). Questo fenomeno, concettualizzato come “memoria transattiva digitale”, rappresenta un'estensione della memoria transattiva tradizionale (documentata nelle coppie e nei gruppi) all'interazione con sistemi informativi non-umani.

Le ricerche di Storm e Stone (2015) sull'“offloading cognitivo” hanno evidenziato come la possibilità di salvare informazioni su dispositivi digitali comporti una riduzione dell'effort mnemonico durante la codifica, con conseguenze sul consolidamento a lungo termine. Questo “risparmio cognitivo” può risultare vantaggioso per l'elaborazione di altre informazioni, ma comporta una maggiore dipendenza dai dispositivi esterni per il recupero dei contenuti.

Gli studi di Henkel (2014) sul “photo-taking impairment effect” hanno documentato come l'atto di fotografare oggetti o eventi comporti una riduzione della memoria per i dettagli degli stessi, suggerendo che l'esternalizzazione dell'informazione su supporti digitali possa modificare i processi di codifica durante l'esperienza diretta. Questo effetto risulta attenuato quando la fotografia comporta uno zoom sui dettagli, evidenziando l'importanza dell'elaborazione attiva durante la codifica.

Le ricerche di Ward et al. (2017) hanno evidenziato come la mera presenza di uno smartphone (anche quando non utilizzato attivamente) comporti una riduzione delle risorse cognitive disponibili, un fenomeno definito “brain drain”. Questo effetto è più pronunciato per gli individui con elevata dipendenza dal dispositivo e suggerisce che la disponibilità permanente di “memoria esterna” possa influenzare i processi cognitivi anche quando non viene esplicitamente sfruttata.

Particolarmente significative sono le ricerche di Dong e Potenza (2015) sui correlati neurali della dipendenza da internet, che hanno evidenziato alterazioni nei circuiti prefrontali associati al controllo cognitivo e nei sistemi di ricompensa. Questi dati suggeriscono che l'esternalizzazione della memoria sui dispositivi digitali possa influenzare non solo le strategie mnemoniche, ma anche i sistemi motivazionali e di autoregolazione.

Il concetto di “memoria prospettica” (la capacità di ricordare di eseguire azioni future) risulta particolarmente rilevante in questo contesto. Gli studi di Landsiedel e Gilbert (2015) hanno evidenziato come l'uso di reminder digitali possa supportare la memoria prospettica a breve termine, ma potenzialmente indebolire i sistemi interni di monitoraggio temporale nel lungo periodo, creando una forma di “atrofia da non-uso”.

Le ricerche di Tamir et al. (2018) sulla condivisione delle esperienze sui social media hanno documentato come l'anticipazione della condivisione modifichi l'esperienza stessa e i processi di codifica mnemonica. Gli eventi vissuti con l'intenzione di condividerli online vengono esperiti e codificati diversamente, con una maggiore attenzione agli aspetti potenzialmente “condivisibili” e una ridotta immersione nell'esperienza diretta.

Questi dati empirici suggeriscono che i dispositivi digitali non fungano da semplici repository passivi dell'informazione, ma riconfigurano attivamente i processi mnemonici, modificando le strategie di codifica, mantenimento e recupero. L'emergere di sistemi di “memoria ibrida” umano-digitale comporta vantaggi significativi in termini di accessibilità e capacità, ma solleva interrogativi sulla profondità dell'elaborazione mnemonica, sull'integrazione coerente della conoscenza e sull'autonomia cognitiva.

2.5 Studi longitudinali sullo sviluppo cognitivo in relazione all'esposizione mediatica

Gli studi longitudinali sullo sviluppo cognitivo in relazione all'esposizione mediatica offrono una prospettiva privilegiata per comprendere l'impatto cumulativo e a lungo termine delle tecnologie comunicative sui processi cognitivi, particolarmente durante le fasi critiche dello sviluppo cerebrale.

Lo studio longitudinale di Takeuchi et al. (2016), che ha seguito 5-11 anni un campione di bambini e adolescenti, ha documentato correlazioni significative tra il tempo trascorso su dispositivi digitali e modificazioni nella materia grigia in aree cerebrali associate all'attenzione e al controllo cognitivo. In particolare, un maggiore utilizzo di smartphone e tablet è risultato associato a una riduzione volumetrica nella corteccia prefrontale e a una diminuzione dell'integrità della materia bianca in specifici fasci di fibre, con conseguenze sulle funzioni esecutive.

Lo studio Generation R, una vasta ricerca longitudinale condotta nei Paesi Bassi che ha seguito oltre 9.000 bambini dalla nascita, ha evidenziato correlazioni complesse tra l'uso precoce dei media e lo sviluppo cognitivo. I risultati di Genc et al. (2020) hanno documentato associazioni non-lineari tra tempo di esposizione agli schermi e sviluppo cerebrale: mentre un'esposizione moderata non mostra effetti significativi, un'esposizione elevata (>4 ore/giorno) è risultata associata a pattern alterati di mielinizzazione e connettività strutturale in aree cerebrali associate al linguaggio e alle funzioni esecutive.

Lo studio ABCD (Adolescent Brain Cognitive Development), la più vasta ricerca longitudinale sullo sviluppo cerebrale e cognitivo degli adolescenti, ha fornito dati significativi sulle correlazioni tra uso dei media e funzioni cognitive. Le analisi di Paulus et al. (2019) hanno evidenziato come un utilizzo intensivo dei social media durante la preadolescenza sia associato a traiettorie di sviluppo alterate nelle aree cerebrali implicate nella cognizione sociale e nella regolazione emotiva, con potenziali implicazioni per lo sviluppo dell'identità e delle relazioni interpersonali.

Le ricerche longitudinali di Madigan et al. (2019) hanno documentato associazioni negative tra l'esposizione precoce agli schermi (0-5 anni) e lo sviluppo delle competenze linguistiche, attentive e della prontezza scolastica. Questi effetti risultano moderati dalla qualità del contenuto e dal contesto di fruizione: l'uso condiviso e interattivo dei media digitali mostra effetti differenti rispetto all'uso passivo e isolato.

Lo studio di Orben e Przybylski (2019), basato su tre vasti dataset longitudinali, ha evidenziato correlazioni statisticamente significative ma di magnitudine modesta tra l'uso dei media digitali e il benessere psicologico degli adolescenti. Le analisi a specificazione multipla suggeriscono che l'impatto dei media digitali sullo sviluppo cognitivo ed emotivo è complesso e non-lineare, con effetti differenziali in base alle caratteristiche individuali, al contesto socio-economico e alle modalità specifiche di utilizzo.

Le ricerche longitudinali di Mills et al. (2016) sui “nativi digitali” hanno evidenziato come l'immersione precoce in ambienti mediali digitali sia associata a specifici pattern di sviluppo cognitivo, caratterizzati da una maggiore capacità di processamento parallelo dell'informazione, di integrazione multimodale e di navigazione in ambienti informativi complessi, ma potenzialmente da una ridotta capacità di attenzione sostenuta e di elaborazione sequenziale profonda.

Gli studi di Loh e Kanai (2016) sulle correlazioni tra uso dei media e plasticità cerebrale lungo l'arco della vita hanno evidenziato come l'impatto dei media digitali sui processi cognitivi vari significativamente in base all'età: mentre i bambini e gli adolescenti mostrano modificazioni più pronunciate, coerentemente con la maggiore plasticità cerebrale di queste fasi, anche gli adulti e gli anziani presentano adattamenti neurali significativi, suggerendo che l'impatto cognitivo dei media si estenda a tutte le fasce d'età.

Lo studio longitudinale di Romeo et al. (2018) ha documentato come l'interazione linguistica faccia a faccia durante i primi anni di vita abbia un impatto significativamente maggiore sullo sviluppo delle aree cerebrali associate al linguaggio rispetto all'esposizione a contenuti linguistici mediati tecnologicamente. Questi risultati suggeriscono che le tecnologie comunicative, pur potendo supportare l'apprendimento, non sostituiscono l'efficacia delle interazioni dirette durante le fasi critiche dello sviluppo.

Questi dati longitudinali, nel loro complesso, evidenziano come l'impatto dei media sui processi cognitivi sia modulato da molteplici fattori, tra cui l'età di esposizione, la durata e l'intensità dell'utilizzo, la tipologia di contenuti, il contesto sociale di fruizione e le caratteristiche individuali. Le evidenze suggeriscono che l'esposizione mediatica comporti riorganizzazioni significative dei circuiti neurali e delle strategie cognitive, con effetti differenziali su diverse funzioni (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero) e con pattern complessi di tradeoff cognitivi.


Il corpus di evidenze empiriche presentato in questo capitolo documenta come le diverse tecnologie comunicative inducano specifiche riconfigurazioni dei processi cognitivi. I dati neuroscientifici evidenziano modificazioni significative nei pattern di attivazione e nella struttura cerebrale in relazione all'uso dei media. Le ricerche comparative tra diversi supporti documentano differenze rilevanti nelle modalità di lettura, comprensione e memorizzazione. Gli studi sull'attenzione evidenziano trasformazioni significative nei processi attentivi in relazione all'architettura ipertestuale dell'informazione. Le ricerche sull'esternalizzazione della memoria documentano l'emergere di sistemi mnemonici ibridi umano-digitali. Gli studi longitudinali, infine, evidenziano l'impatto cumulativo dell'esposizione mediatica sulle traiettorie di sviluppo cognitivo.

Queste evidenze empiriche, nel loro complesso, supportano la tesi mcluhaniana secondo cui ogni tecnologia comunicativa comporta una riconfigurazione dell'equilibrio sensoriale e cognitivo. I media non si limitano a veicolare contenuti, ma modellano attivamente i processi attraverso cui percepiamo, elaboriamo e integriamo l'informazione.

 

CAPITOLO III: IMPLICAZIONI ANTROPOLOGICHE E PROSPETTIVE CRITICHE

3.1 La tecno-mediazione dell'esperienza: fenomenologia della percezione nell'era digitale

La fenomenologia della percezione, elaborata da Maurice Merleau-Ponty, offre un framework teoretico particolarmente fecondo per analizzare la tecno-mediazione dell'esperienza nell'era digitale. Secondo la prospettiva merleau-pontiana, la percezione non è un processo passivo di registrazione di dati sensoriali, ma un'attività corporea intenzionale attraverso cui il soggetto entra in relazione con il mondo. Le tecnologie digitali, in questa prospettiva, non si configurano come semplici strumenti, ma come estensioni del corpo vissuto (Leib) che modificano radicalmente la struttura dell'esperienza percettiva.

Don Ihde, nella sua opera “Technology and the Lifeworld” (1990), ha elaborato una tassonomia delle relazioni uomo-tecnologia che risulta particolarmente pertinente per analizzare la tecno-mediazione dell'esperienza. Ihde distingue quattro modalità relazionali: incorporazione (embodiment), in cui la tecnologia diventa quasi trasparente, estendendo le capacità percettive (come gli occhiali); ermeneutica, in cui la tecnologia fornisce rappresentazioni del mondo che richiedono interpretazione (come le immagini diagnostiche); alterità, in cui la tecnologia si presenta come un quasi-altro con cui interagire (come i robot); e sfondo, in cui la tecnologia opera in modo largamente automatico e non tematizzato (come i sistemi di climatizzazione).

Le tecnologie digitali contemporanee oscillano tra queste diverse modalità, configurando un ambiente percettivo caratterizzato da una continua tensione tra immediatezza e ipermediazione. La realtà virtuale, ad esempio, tende alla relazione di incorporazione, cercando di rendere trasparente il medium, mentre i social media operano principalmente in modalità ermeneutica, offrendo rappresentazioni del mondo sociale che richiedono specifiche competenze interpretative.

Particolarmente significativa è l'analisi di Hubert Dreyfus (2009) sull'impatto delle tecnologie digitali sulla percezione corporea e sull'embodied cognition. Dreyfus, sviluppando la critica heideggeriana alla tecnologia moderna, evidenzia come la digitalizzazione dell'esperienza comporti una progressiva “astrazione” dal contesto corporeo e situazionale, con conseguenze significative sull'apprendimento e sulla comprensione. L'apprendimento di competenze complesse, secondo Dreyfus, richiede un coinvolgimento corporeo e situazionale che la mediazione digitale tende a indebolire.

La prospettiva post-fenomenologica di Peter-Paul Verbeek (2011) offre un'ulteriore articolazione dell'analisi della tecno-mediazione. Verbeek, superando la dicotomia tra soggetto e oggetto, concepisce le tecnologie come “mediazioni attive” che non si limitano a connettere un soggetto preesistente con un mondo indipendente, ma contribuiscono a costituire entrambi. Le tecnologie digitali, in questa prospettiva, non sono semplici intermediari, ma mediatori che trasformano attivamente sia l'esperienza del mondo sia la percezione di sé.

Le ricerche di Sherry Turkle sulla “vita sullo schermo” evidenziano le trasformazioni dell'esperienza indotte dalla mediazione digitale. Turkle analizza come le interfacce digitali modellino la nostra relazione con il mondo e con gli altri, favorendo modalità di pensiero e di relazione caratterizzate dalla simultaneità, dalla molteplicità e dalla discontinuità. La distinzione tra reale e virtuale, in questa prospettiva, non è più concepibile come una dicotomia netta, ma come un continuum esperienziale.

La crescente diffusione di tecnologie di “realtà aumentata” e “realtà mista” configura ulteriori trasformazioni dell'esperienza percettiva. Queste tecnologie non creano ambienti virtuali separati, ma sovrappongono strati informativi digitali alla percezione del mondo fisico, generando quello che Luciano Floridi definisce “infosfera”, un ambiente ibrido in cui elementi fisici e digitali si integrano in un'unica esperienza percettiva.

Queste trasformazioni dell'esperienza percettiva comportano implicazioni antropologiche profonde. La mediazione tecnologica dell'esperienza non si limita a modificare i contenuti percettivi, ma riconfigura le strutture stesse della sensibilità, le modalità di presenza corporea e le forme della spazialità e della temporalità vissute. L'analisi fenomenologica della tecno-mediazione evidenzia come le tecnologie digitali non siano semplici strumenti neutrali, ma configurazioni esistenziali che modellano le possibilità stesse dell'esperienza umana.

3.2 Identità e soggettività nelle piattaforme digitali: frammentazione e ricomposizione del sé

Le piattaforme digitali configurano specifici “spazi antropologici” (Lévy, 1994) in cui emergono nuove modalità di costruzione dell'identità e di articolazione della soggettività. Questi ambienti tecno-sociali non si limitano a offrire nuovi contesti di espressione per identità preesistenti, ma riconfigurano attivamente i processi stessi di soggettivazione, le modalità di presentazione del sé e le dinamiche di riconoscimento intersoggettivo.

Le ricerche di Sherry Turkle (2011) sul “sé molteplice” evidenziano come gli ambienti digitali favoriscano modalità di costruzione identitaria caratterizzate dalla molteplicità, dalla fluidità e dalla discontinuità. Nelle piattaforme digitali, l'identità non si configura come una struttura unitaria e coerente, ma come un “portfolio di sé” in continua rinegoziazione. Questa frammentazione identitaria può configurarsi sia come un'opportunità di esplorazione e sperimentazione sia come una fonte di dispersione e di incertezza esistenziale.

La teoria della “presentazione del sé” elaborata da Erving Goffman acquisisce nuove articolazioni nei contesti digitali. Alberto Marinelli (2004) ha analizzato come le piattaforme digitali configurino specifiche “ribalta” e “retroscena” in cui i soggetti orchestrano strategicamente la propria self-presentation. A differenza delle interazioni faccia a faccia, le piattaforme digitali permettono un controllo più accurato delle “impressioni” veicolate e una gestione strategica della “facciata personale”, ma introducono anche nuove vulnerabilità legate alla persistenza delle tracce digitali e alla perdita di controllo sui contenuti condivisi.

Il concetto di “networked individualism” elaborato da Barry Wellman e Lee Rainie (2012) evidenzia come le piattaforme digitali riconfigurano il rapporto tra individualità e socialità. L'individuo networked non è né un atomo isolato né un membro subordinato di gruppi stabili, ma un nodo in reti relazionali multiple e fluide che deve continuamente negoziare la propria appartenenza e visibilità. Questa condizione comporta maggiori gradi di autonomia individuale, ma anche nuove forme di dipendenza e vulnerabilità sociale.

Particolarmente significativa è l'analisi di Bernard Stiegler sulla “grammatizzazione digitale”. Stiegler, riprendendo il concetto di grammatizzazione elaborato da Sylvain Auroux, analizza come le tecnologie digitali esteriorizzino e discrezizzino i flussi mentali e comportamentali, trasformandoli in sequenze manipolabili e valorizzabili. Questa grammatizzazione delle attività cognitive e relazionali comporta una “proletarizzazione” del sé, una progressiva perdita di sapere e autonomia a favore di sistemi tecnici che catturano e modellano l'attenzione, il desiderio e la memoria.

Le ricerche di danah boyd (2014) sugli adolescenti evidenziano come le piattaforme digitali configurino specifiche “geografie dell'identità” caratterizzate dalla persistenza (permanenza delle tracce digitali), dalla replicabilità (possibilità di duplicazione dei contenuti), dalla scalabilità (potenziale di diffusione virale) e dalla ricercabilità (possibilità di accesso attraverso motori di ricerca). Queste proprietà strutturali degli ambienti digitali comportano specifiche strategie di gestione della privacy e dell'identità, come la segmentazione dei pubblici, la steganografia sociale e l'autocensura strategica.

Le analisi di Dominique Cardon (2015) sulle “politiche dei profili” evidenziano come le diverse piattaforme digitali configurino specifici “regimi di visibilità” e di riconoscimento. Piattaforme come Facebook, Instagram, LinkedIn o TikTok non sono semplici canali di espressione, ma “dispositivi” (nel senso foucaultiano) che inducono specifiche modalità di soggettivazione attraverso l'articolazione di metriche, affordance interattive, algoritmi di personalizzazione e modelli economici.

Le ricerche di Eva Illouz (2012) sulla “ingegneria emotiva” delle piattaforme digitali evidenziano come queste non si limitino a veicolare emozioni preesistenti, ma configurino specifici “regimi emotivi” che modellano le modalità di sperimentazione, espressione e regolazione affettiva. Le piattaforme digitali, attraverso le loro architetture interattive, inducono specifiche “economie dell'attenzione” e “regimi affettivi” che influenzano profondamente i processi di costruzione identitaria.

Queste trasformazioni dei processi di soggettivazione comportano implicazioni antropologiche significative. La frammentazione e la moltiplicazione delle istanze identitarie negli ambienti digitali non rappresentano semplici variazioni superficiali di un nucleo identitario stabile, ma riconfigurazioni profonde delle strutture stesse della soggettività. Gli ambienti digitali inducono specifiche “tecnologie del sé” (nel senso foucaultiano) che modellano le modalità di relazione con se stessi, con gli altri e con il mondo.

3.3 L'accelerazione sociale: compressione spazio-temporale e modificazioni nelle strutture cognitive

Il fenomeno dell'accelerazione sociale, teorizzato da Hartmut Rosa (2010), rappresenta una chiave interpretativa fondamentale per comprendere le modificazioni cognitive indotte dalle tecnologie digitali. Rosa distingue tre forme di accelerazione interconnesse: l'accelerazione tecnologica (l'aumentata velocità dei processi di trasporto, comunicazione e produzione), l'accelerazione del cambiamento sociale (l'aumentata velocità di trasformazione delle istituzioni, delle pratiche e delle relazioni) e l'accelerazione del ritmo di vita (l'aumentata densità di esperienze e azioni nell'unità di tempo).

Le tecnologie digitali, in particolare, hanno comportato una drammatica accelerazione delle comunicazioni e una riduzione della “frizione” spazio-temporale, con conseguenze significative sulle strutture cognitive. La comunicazione istantanea, la connettività permanente e l'accesso ubiquo all'informazione hanno modificato radicalmente i pattern attentivi, le strategie mnemoniche e le modalità di elaborazione dell'informazione.

Il concetto di “compressione spazio-temporale” elaborato da David Harvey (1989) offre un'ulteriore chiave interpretativa di queste trasformazioni. Secondo Harvey, le tecnologie comunicative hanno comportato un “annullamento dello spazio attraverso il tempo”, una riduzione delle barriere spaziali che modifica radicalmente la percezione e l'esperienza della distanza. Questa compressione spazio-temporale non è un processo neutrale, ma comporta specifiche riconfigurazioni delle strutture cognitive, in particolare delle modalità di organizzazione dell'attenzione e della memoria.

Le ricerche di James Gleick (1999) sulla “accelerazione informativa” evidenziano come l'aumento esponenziale della velocità di trasmissione e della quantità di informazioni disponibili comporti specifiche modificazioni nei processi di elaborazione cognitiva. L'esposizione prolungata a flussi informativi caratterizzati da alta velocità, elevata densità e continua frammentazione induce strategie cognitive adattive, tra cui il multitasking, lo skimming (lettura superficiale) e forme di “attenzione parziale continua” (Linda Stone).

Particolarmente significativa è l'analisi di Bernard Stiegler sulla “industrializzazione della memoria”. Stiegler, riprendendo e sviluppando le riflessioni di Edmund Husserl sulla temporalità della coscienza, analizza come le tecnologie digitali riconfigurano le strutture temporali della coscienza, in particolare i processi di “ritenzione” (conservazione del passato) e “protensione” (anticipazione del futuro). L'esternalizzazione della memoria sulle piattaforme digitali comporta una progressiva “proletarizzazione” delle capacità mnemoniche, con conseguenze significative sulla costruzione dell'identità personale e collettiva.

Le ricerche di Nicole Aubert (2003) sull'“individuo ipermoderno” evidenziano come l'accelerazione sociale indotta dalle tecnologie digitali comporti una specifica “economia psichica” caratterizzata dall'urgenza permanente, dall'eccitazione continua e da nuove forme di fragilità narcisistica. La compressione temporale e l'intensificazione esperienziale indotte dalle tecnologie digitali favoriscono modalità di relazione con sé e con gli altri caratterizzate dall'immediatezza, dall'intensità e dalla labilità.

Il concetto di “presentismo” elaborato da François Hartog (2003) offre un'ulteriore chiave interpretativa di queste trasformazioni. Secondo Hartog, la società contemporanea è caratterizzata da un “regime di storicità” incentrato sul presente, una temporalità contratta in cui passato e futuro vengono progressivamente assorbiti in un “presente ipertrofico”. Le tecnologie digitali, con la loro enfasi sull'immediatezza e sulla simultaneità, contribuiscono a questa “presentificazione” dell'esperienza temporale, con conseguenze significative sulla costruzione della memoria individuale e collettiva.

Le analisi di Jonathan Crary (2013) sulla “colonizzazione capitalistica del sonno” evidenziano come l'accelerazione socio-tecnologica comporti una progressiva erosione degli ultimi spazi di disconnessione e di rallentamento. La connettività permanente e l'imperativo di reperibilità continua comportano una progressiva sincronizzazione dei ritmi biologici con i ritmi della produzione e del consumo, con conseguenze significative sul benessere psico-fisico e sulle capacità attentive.

Queste trasformazioni delle strutture temporali dell'esperienza comportano implicazioni cognitive profonde. L'accelerazione sociale non modifica soltanto la velocità delle operazioni cognitive, ma riconfigura qualitativamente le modalità di percezione, attenzione, memoria e pensiero. La compressione spazio-temporale indotta dalle tecnologie digitali non è un semplice incremento quantitativo della velocità di elaborazione, ma una trasformazione qualitativa delle strutture stesse della temporalità vissuta.

3.4 Implicazioni epistemologiche: costruzione della conoscenza e autorità epistemica nell'ecosistema mediale

L'ecosistema mediale contemporaneo riconfigura profondamente i processi di costruzione, validazione e circolazione della conoscenza, con implicazioni epistemologiche significative. Le tecnologie digitali non si limitano a modificare i canali di accesso all'informazione, ma trasformano le modalità stesse di produzione del sapere, le strutture di autorità epistemica e i criteri di valutazione della conoscenza.

Le analisi di Jean-François Lyotard (1979) sulla “condizione postmoderna” offrono una chiave interpretativa fondamentale di queste trasformazioni. Secondo Lyotard, l'informatizzazione della società comporta una crisi delle “grandi narrazioni” che hanno tradizionalmente legittimato la conoscenza scientifica e una frammentazione del sapere in “giochi linguistici” eterogenei e incommensurabili. L'ecosistema mediale digitale, con la sua struttura reticolare e multilineare, sembra confermare questa diagnosi, favorendo modalità di conoscenza caratterizzate dalla molteplicità, dalla contingenza e dalla contestualità.

Il concetto di “economia dell'attenzione” elaborato da Herbert Simon e sviluppato da Michael Goldhaber e Georg Franck offre un'ulteriore chiave interpretativa delle trasformazioni epistemologiche indotte dalle tecnologie digitali. In un contesto di sovrabbondanza informativa, l'attenzione diventa la risorsa scarsa per eccellenza, e la capacità di attrarre e mantenere l'attenzione diventa un fattore determinante per la circolazione e la validazione della conoscenza. Questa “economizzazione” dell'attenzione comporta specifiche riconfigurazioni dei criteri di rilevanza, autorevolezza e credibilità.

Le ricerche di Clay Shirky (2008) sul “filtro post-pubblicazione” evidenziano come l'ecosistema mediale digitale comporti un'inversione del tradizionale modello di filtro informativo. Nel modello pre-digitale, il filtro editoriale precede la pubblicazione, garantendo un controllo qualitativo preventivo; nell'ecosistema digitale, il filtro si sposta “a valle” della pubblicazione, attraverso meccanismi di aggregazione, raccomandazione e discussione distribuita. Questa inversione modifica radicalmente i processi di validazione e circolazione della conoscenza, con implicazioni significative per le strutture di autorità epistemica.

Il concetto di “filter bubble” elaborato da Eli Pariser (2011) evidenzia un'ulteriore dimensione di queste trasformazioni. Secondo Pariser, gli algoritmi di personalizzazione tendono a rinforzare le convinzioni preesistenti, creando “camere dell'eco” che ostacolano l'esposizione a prospettive diverse e la formazione di una base informativa condivisa. Questa frammentazione del panorama informativo comporta il rischio di una progressiva disgregazione della sfera pubblica e di un indebolimento delle capacità di deliberazione collettiva.

Le analisi di Katherine Hayles (2007) sul “deep attention vs. hyper attention” evidenziano come l'ecosistema mediale digitale favorisca modalità di attenzione caratterizzate dalla rapidità, dalla simultaneità e dal multitasking, a discapito dell'attenzione profonda necessaria per l'elaborazione di conoscenze complesse. Questa trasformazione dei regimi attentivi comporta specifiche riconfigurazioni delle modalità di apprendimento, comprensione e memorizzazione.

Le ricerche di danah boyd (2018) sulle “pratiche informative” dei nativi digitali evidenziano come l'ecosistema mediale contemporaneo richieda nuove forme di “literacy” e specifiche competenze critiche. La capacità di navigare efficacemente nell'oceano informativo digitale implica non solo competenze tecniche, ma anche sofisticate capacità metacognitive, epistemiche e sociali, tra cui la valutazione della credibilità delle fonti, la comprensione dei bias algoritmici e la navigazione delle dinamiche di gruppo online.

Il concetto di “knowing-how vs. knowing-that” elaborato da Gilbert Ryle acquisisce nuove articolazioni nell'ecosistema mediale digitale. L'accesso istantaneo a vasti repository informativi attraverso motori di ricerca e assistenti digitali modifica il rapporto tra conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale, tra “sapere che” e “sapere come”. La delega di funzioni cognitive ai dispositivi digitali comporta un rischio di “atrofia” delle capacità cognitive non esercitate, ma offre anche opportunità di potenziamento cognitivo attraverso forme di “cognizione distribuita”.

Queste trasformazioni epistemologiche comportano implicazioni educative significative. I sistemi educativi tradizionali, sviluppati in un contesto mediale dominato dalla stampa, enfatizzano modalità di conoscenza caratterizzate dalla linearità, dalla sistematicità e dall'autorità centralizzata. L'ecosistema mediale digitale, con la sua struttura reticolare, multilineare e distribuita, richiede un ripensamento profondo degli obiettivi, dei metodi e delle strutture educative.

3.5 Prospettive etiche: responsabilità e consapevolezza nell'uso delle tecnologie della comunicazione

Le trasformazioni cognitive e sociali indotte dalle tecnologie digitali sollevano questioni etiche fondamentali riguardanti la responsabilità, l'autonomia, l'equità e il benessere individuale e collettivo. Queste questioni non possono essere affrontate adeguatamente né attraverso un determinismo tecnologico che considera le trasformazioni in atto come inevitabili e non governabili, né attraverso un volontarismo ingenuo che ignora i vincoli e i condizionamenti strutturali.

Il concetto di “mediazione tecnologica” elaborato da Peter-Paul Verbeek (2011) offre un framework teoretico per articolare le dimensioni etiche della relazione uomo-tecnologia. Secondo Verbeek, le tecnologie non sono strumenti neutrali, ma mediazioni attive che configurano specifiche “pratiche” e “soggettività morali”. L'etica della tecnologia, in questa prospettiva, non può limitarsi a valutare gli effetti delle tecnologie su valori preesistenti, ma deve analizzare come le tecnologie contribuiscano a costituire i valori stessi e le capacità morali degli attori.

Le riflessioni di Albert Borgmann sulla “tecnologia come modello” evidenziano come le tecnologie digitali non si limitino a modificare comportamenti specifici, ma configurino “modelli” di relazione con il mondo, con gli altri e con se stessi. Il “paradigma del dispositivo” (device paradigm) descritto da Borgmann tende a favorire modalità di relazione caratterizzate dalla disponibilità immediata, dalla fungibilità e dalla decontestualizzazione, a discapito di relazioni caratterizzate dall'impegno, dalla specificità e dalla contestualità.

Le analisi di Sherry Turkle sulla “conversazione” come pratica etica illuminano un'ulteriore dimensione di queste trasformazioni. Secondo Turkle, le tecnologie digitali tendono a sostituire la conversazione faccia a faccia, caratterizzata dalla vulnerabilità, dall'imprevedibilità e dalla reciprocità, con forme di comunicazione mediata caratterizzate dal controllo, dalla prevedibilità e dall'asimmetria. Questa sostituzione comporta un rischio di atrofia delle capacità empatiche e delle competenze relazionali necessarie per la vita etica.

Il concetto di “autonomia situata” elaborato da Philip Brey offre un framework per analizzare le implicazioni delle tecnologie digitali per l'autonomia personale. Secondo Brey, l'autonomia non è una proprietà astratta di un soggetto isolato, ma emerge dalle relazioni concrete tra individui situati in specifici contesti socio-tecnici. Le tecnologie digitali possono sia potenziare l'autonomia, offrendo nuove possibilità di azione e di espressione, sia comprometterla, attraverso forme sottili di condizionamento, sorveglianza e dipendenza.

Le riflessioni di Martha Nussbaum sull'approccio delle “capacità” offrono un'ulteriore prospettiva etica sulle tecnologie digitali. Nussbaum concepisce lo sviluppo umano non in termini di utilità o reddito, ma in termini di “capacità” fondamentali che permettono una vita dignitosa e fiorente. Le tecnologie digitali, in questa prospettiva, dovrebbero essere valutate in base alla loro capacità di potenziare o indebolire queste capacità fondamentali, tra cui la salute, l'integrità corporea, il pensiero critico, l'immaginazione, il controllo sul proprio ambiente e le relazioni significative.

Le analisi di Luciano Floridi sull'“infosfera” e sull'“onlife” evidenziano la necessità di un'etica informazionale adeguata a un ambiente in cui la distinzione tra online e offline, tra virtuale e reale, diventa sempre più sfumata. L'etica informazionale, secondo Floridi, deve basarsi su una concezione delle entità (umane e non-umane) come “inforg”, organismi informazionali interconnessi in un ambiente informazionale condiviso. Questa ontologia informazionale comporta specifiche responsabilità riguardanti l'integrità, l'affidabilità e la qualità dell'informazione.

Il concetto di “giustizia algoritmica” elaborato da Virginia Eubanks, Safiya Noble e Cathy O'Neil evidenzia le dimensioni politiche e sociali dell'etica digitale. Gli algoritmi che governano sempre più aspetti della vita sociale non sono strumenti neutrali, ma incorporano specifici valori, pregiudizi e relazioni di potere. La giustizia algoritmica richiede trasparenza, accountability e inclusività nella progettazione e nell'implementazione dei sistemi algoritmici, con particolare attenzione alle implicazioni per le comunità marginali e vulnerabili.

Le riflessioni di Bernard Stiegler sulla “farmacologia digitale” offrono un framework dialettico per articolare le dimensioni etiche delle tecnologie comunicative. Secondo Stiegler, riprendendo la riflessione platonica sul “pharmakon”, le tecnologie digitali sono contemporaneamente “veleno” e “rimedio”, possono sia potenziare sia indebolire le capacità umane. La “terapeutica” digitale richiede una comprensione approfondita di questa ambivalenza e lo sviluppo di “pratiche di cura” che permettano di coltivare relazioni benefiche con le tecnologie.

Queste prospettive etiche evidenziano la necessità di un approccio critico e riflessivo alle tecnologie comunicative, che superi sia l'entusiasmo acritico sia il pessimismo apocalittico. L'etica delle tecnologie digitali non può limitarsi a una valutazione estrinseca degli “impatti”, ma richiede una comprensione intrinseca dei modi in cui le tecnologie configurano specifiche “pratiche” e “soggettività morali”. Questa comprensione è la base per lo sviluppo di pratiche di “cura” individuale e collettiva che permettano relazioni benefiche con le tecnologie comunicative.


Le prospettive teoriche e le evidenze empiriche presentate in questo saggio confermano la tesi mcluhaniana secondo cui “il medium è il messaggio”: ogni tecnologia comunicativa riconfigura non solo i contenuti veicolati, ma le strutture stesse della percezione, dell'attenzione, della memoria e del pensiero. Questa riconfigurazione non è un semplice effetto collaterale, ma rappresenta l'impatto più profondo e duraturo delle tecnologie mediali.

L'analisi neuroscientifica documenta come l'interazione prolungata con diversi ecosistemi mediali comporti specifiche modificazioni nei pattern di attivazione e nella struttura cerebrale, evidenziando la profonda interpenetrazione tra tecnologie comunicative e substrato biologico della cognizione. Gli studi comparativi tra diversi supporti evidenziano differenze significative nelle modalità di lettura, comprensione e memorizzazione, suggerendo che i media non sono veicoli neutrali, ma configurazioni che modellano attivamente i processi cognitivi.

Le analisi filosofiche e antropologiche evidenziano come le tecnologie comunicative non si limitino a modificare processi cognitivi specifici, ma riconfigurano le strutture stesse dell'esperienza, dell'identità, della temporalità e della socialità. L'ecosistema mediale contemporaneo, caratterizzato dalla convergenza, dall'ipertestualità e dalla connettività permanente, induce trasformazioni antropologiche che richiedono un ripensamento profondo delle categorie filosofiche, educative ed etiche tradizionali.

Queste trasformazioni non sono né inevitabili né deterministiche, ma emergono dall'interazione complessa tra le affordance tecnologiche, i contesti socio-culturali di utilizzo e le caratteristiche individuali. La comprensione critica di questa interazione è la condizione di possibilità per lo sviluppo di pratiche individuali e collettive che permettano relazioni consapevoli e benefiche con le tecnologie comunicative.

Le tecnologie mediali non sono semplici strumenti, ma ambienti cognitivi che modellano le nostre modalità di percezione, comprensione e relazione con il mondo. La consapevolezza di questa mediazione è il primo passo verso un uso più consapevole e responsabile delle tecnologie comunicative, che ne valorizzi le potenzialità senza ignorarne i rischi e le ambivalenze.

 

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APPENDICE METODOLOGICA: STRUMENTI DI RICERCA NELL'ANALISI DELLE MODIFICAZIONI COGNITIVE INDOTTE DAI MEDIA

L'analisi delle modificazioni cognitive indotte dai media richiede l'integrazione di approcci metodologici diversi, capaci di cogliere le molteplici dimensioni di queste trasformazioni. La presente bibliografia raccoglie le opere fondamentali nei diversi ambiti disciplinari che contribuiscono a questa analisi: neuroscienze cognitive, psicologia sperimentale, media studies, filosofia della tecnologia e antropologia digitale.

Per un approfondimento degli strumenti metodologici specifici utilizzati nelle ricerche empiriche citate nel saggio, si rimanda alle pubblicazioni originali, accessibili attraverso i link forniti quando disponibili o attraverso i database accademici delle principali università.

 

*docente di Filosofia, Scienze Umane, Psicologia e Tecniche di Comunicazione

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