di Francesco Pungitore*
Nel panorama complesso della psicologia dello sviluppo, la genitorialità emerge come uno dei fattori decisivi nella formazione della personalità e del benessere psicologico dell'individuo. Le teorie pioneristiche di John Bowlby sull'attaccamento, insieme agli studi psicoanalitici di Sigmund Freud e agli stadi psicosociali di Erik Erikson, convergono su un punto fondamentale: le esperienze vissute durante l'infanzia costituiscono le fondamenta sulle quali si edificherà l'intera struttura psichica della persona.
L'imprinting e il suo impatto
La teoria dell'attaccamento di Bowlby ha dimostrato come le prime relazioni con i caregiver primari creino dei modelli operativi interni che influenzano profondamente il modo in cui l'individuo percepirà se stesso e le relazioni interpersonali per tutto il corso della vita. Questi pattern relazionali precoci si inscrivono nella memoria implicita del bambino, plasmando le sue aspettative sul mondo e sulle relazioni future.
Ma uno degli aspetti più critici della genitorialità è paradossalmente la limitata consapevolezza che i genitori hanno di questo impatto, dell'impatto delle loro azioni quotidiane. Ogni gesto, parola o reazione emotiva contribuisce a costruire l'architettura neuropsicologica del bambino. Come evidenziato dagli studi di Erikson, ogni fase dello sviluppo presenta delle sfide specifiche, la cui risoluzione dipende in larga misura dalla qualità delle interazioni con i caregiver.
La crisi contemporanea
I dati epidemiologici più recenti mostrano un incremento allarmante di problematiche psicologiche tra gli adolescenti.
Questi fenomeni non possono essere ignorati e richiedono una riflessione profonda sulle dinamiche familiari contemporanee e sugli stili genitoriali prevalenti.
La sfida reale della genitorialità
Mentre la letteratura psicologica delinea un quadro ideale di genitorialità consapevole e presente, la realtà quotidiana spesso racconta una storia molto diversa. Nel vortice della vita contemporanea, assistiamo a uno scenario dove la cura dei figli si riduce frequentemente a una gestione di base, subordinata a priorità considerate più urgenti: carriera, stabilità economica, realizzazione personale e, talvolta, semplice sopravvivenza quotidiana.
L'osservazione clinica rivela un panorama complesso dove la “presenza consapevole” teorizzata si traduce spesso in presenza fisica ma assenza emotiva. La “qualità del tempo” diventa un mantra per giustificare l'assenza quantitativa, mentre gli spazi di vera connessione emotiva si riducono drasticamente.
Il modellamento, tanto enfatizzato dalla teoria, assume nella realtà contorni preoccupanti: i bambini osservano e imitano genitori spesso emotivamente instabili o semplicemente assenti. La comunicazione familiare si riduce frequentemente a scambi funzionali, istruzioni pratiche o rimproveri, mentre lo spazio per il dialogo profondo e la condivisione emotiva viene eroso dalla frenesia quotidiana.
Particolarmente allarmante è la tendenza a mascherare l'assenza emotiva con il materialismo: regali costosi, attività extrascolastiche in sequenza e tecnologia all'avanguardia sostituiscono il tempo di qualità e l'attenzione autentica. I genitori, spesso inconsapevolmente, proiettano sui figli le proprie ambizioni frustrate, creando un clima di pressione performativa che alimenta ansia e insicurezza.
La regolazione emotiva, fondamentale per lo sviluppo psicologico, viene compromessa da modelli adulti che mostrano essi stessi difficoltà significative nella gestione dello stress e delle emozioni. I bambini assorbono questa disregolazione, manifestando poi problematiche che vengono troppo spesso medicalizzate invece che comprese nel loro contesto relazionale.
La flessibilità tanto auspicata si trasforma frequentemente in inconsistenza educativa, dove le regole variano in base alla stanchezza o allo stress dei genitori, creando confusione e insicurezza nei figli. Il supporto sociale, quando presente, si riduce spesso a una rete di confronti competitivi tra genitori, alimentando ansie e inadeguatezze invece di offrire vero sostegno.
La verità scomoda è che molti genitori non conoscono teoricamente i principi di una genitorialità efficace oppure si trovano nell'impossibilità pratica o nell'indisponibilità emotiva di metterli in atto. Le conseguenze di questo divario tra teoria e prassi si manifestano nei crescenti tassi di disagio giovanile, nei problemi comportamentali e nelle difficoltà relazionali che caratterizzano le nuove generazioni.
Non si tratta di “demonizzare” i genitori, ma di riconoscere onestamente che il modello di genitorialità consapevole, per quanto idealmente corretto, si scontra con una realtà che spesso lo rende irrealizzabile. La vera sfida non è tanto promuovere un ideale teorico, quanto sviluppare strategie concrete che permettano di integrare principi di buona genitorialità all'interno delle reali condizioni di vita delle famiglie contemporanee.
È necessario un cambio di paradigma che riconosca questi limiti e proponga soluzioni realistiche, considerando i vincoli temporali, economici ed emotivi che caratterizzano la vita delle famiglie moderne. Solo attraverso questo riconoscimento onesto delle difficoltà reali potremo iniziare a costruire percorsi di supporto efficaci, che non si limitino a predicare un ideale irraggiungibile, ma offrano strumenti concreti per migliorare la qualità della relazione genitori-figli nel contesto delle sfide quotidiane.
La scuola come laboratorio
In questo complesso scenario, la scuola si trova sempre più spesso a dover compensare le carenze della genitorialità contemporanea, assumendo un ruolo che va ben oltre la sua missione educativa tradizionale. Gli insegnanti si ritrovano quotidianamente a gestire non solo l'apprendimento, ma anche le conseguenze emotive e comportamentali di dinamiche familiari disfunzionali. Tuttavia, paradossalmente, mentre la scuola viene investita di responsabilità crescenti, la sua autorevolezza viene sistematicamente minata da genitori che, proiettando le proprie insicurezze, tendono a metterne in discussione metodi e decisioni, creando pericolose alleanze con i figli contro l'istituzione stessa. Gli insegnanti si trovano così in una posizione impossibile: da un lato devono supplire alle carenze familiari, dall'altro vengono delegittimati proprio da quei genitori che hanno delegato loro responsabilità fondamentali. Questa dinamica contraddittoria si riflette negativamente sui bambini e adolescenti, che perdono punti di riferimento autorevoli e coerenti, essenziali per il loro sviluppo. La scuola, che potrebbe essere un prezioso alleato nel processo di crescita, diventa invece troppo spesso terreno di conflitto, dove le fragilità genitoriali si manifestano attraverso atteggiamenti ipercritici o rivendicativi che minano alla base la possibilità di una vera collaborazione educativa. È necessario ripensare questa relazione, riconoscendo che la scuola, pur con i suoi limiti e le sue criticità, rappresenta ancora uno dei pochi baluardi di socializzazione strutturata e di educazione alla cittadinanza, il cui ruolo andrebbe sostenuto e valorizzato, anziché sistematicamente delegittimato.
In questa complessa trama di responsabilità disattese, proiezioni inconsce e delega educativa, emerge paradossalmente una possibilità trasformativa: proprio la scuola, spesso bersaglio di critiche e sfiducia, potrebbe diventare il luogo privilegiato per un autentico apprendimento della genitorialità. Non attraverso teoriche lezioni sulla “genitorialità perfetta”, ma mediante la creazione di spazi di confronto guidato tra genitori, supportati da professionisti della relazione educativa. Un luogo dove le famiglie possano rispecchiarsi nelle difficoltà comuni, condividere strategie di gestione quotidiana, e soprattutto riconoscere ed elaborare quelle dinamiche inconsce che portano a ripetere pattern disfunzionali. La scuola potrebbe così trasformarsi in un laboratorio di consapevolezza genitoriale, dove l'alleanza educativa non sia solo un'espressione retorica, ma una pratica concreta di crescita condivisa. Questo significherebbe ripensare radicalmente il rapporto scuola-famiglia, superando sia la delega passiva che l'opposizione sterile, per costruire una vera comunità educante dove genitori, insegnanti e professionisti collaborino nel complesso compito di crescere le nuove generazioni, consapevoli che nessuno nasce “genitore perfetto”, ma tutti possono imparare a essere genitori “sufficientemente buoni” - come insegnava Donald Woods Winnicott (1896-1971), pediatra e psicoanalista britannico - se supportati da un contesto accogliente e competente.
*giornalista professionista, docente di Psicologia, Storia, Psicologia, Scienze Umane e Tecniche di Comunicazione con Perfezionamento post-laurea in Tecnologie per l’Insegnamento e Master in Comunicazione Digitale. Direttore Tecnico dell’Osservatorio Nazionale Minori e Intelligenza Artificiale