La strategia e gli obiettivi USA
Quali sono le motivazioni che spingono Trump verso questa strategia
commerciale aggressiva? Una risposta può essere trovata analizzando attentamente il delicato contesto statunitense. Sarebbe un errore ridurre la vicenda a una semplice decisione di un uomo
solo al comando. In realtà, Trump sta rispondendo a precise logiche di interesse politico ed economico radicate nella società americana, che mirano a riequilibrare i rapporti commerciali
internazionali considerati sfavorevoli dagli Stati Uniti. Una risposta più completa può essere trovata analizzando attentamente il delicato contesto economico degli States. La superpotenza
deve affrontare una realtà complessa caratterizzata da un debito federale record di 36 trilioni di dollari, che secondo le stime crescerà ulteriormente fino a 38 trilioni entro il 2025,
alimentato da un deficit annuale di circa 2 trilioni di dollari. In tale contesto, Trump sta puntando su una strategia articolata in tre principali leve economiche per invertire questa tendenza
negativa.
In primo luogo, il presidente statunitense intende effettuare drastici
tagli alla spesa pubblica, risparmiando almeno 1 trilione di dollari. Questi tagli mirano principalmente agli sprechi evidenti e ai casi di frode, come pagamenti indebiti della previdenza sociale a
persone ormai decedute o inesistenti. Per garantire l'efficacia di questa operazione, Trump ha affidato a Elon Musk il ruolo di capo del Department of Government Efficiency (Doge), un incarico
specifico per identificare e ridurre gli sprechi nella spesa pubblica federale. In secondo luogo, l'obiettivo dichiarato è quello di aumentare le entrate di almeno 1-2 trilioni di dollari attraverso
una sostanziale espansione delle tariffe doganali, elevandole dagli attuali 50 miliardi a circa 500 miliardi di dollari annui. Trump è convinto che gli altri Paesi non avranno modo di contrattaccare
efficacemente, considerando che gli Stati Uniti rappresentano il maggior cliente globale, importando beni per oltre 3 trilioni di dollari l’anno.
Trump difende questa strategia anche in nome dell'equità commerciale,
sottolineando che l'attuale sistema di tariffe non è giusto: ad esempio, evidenzia come le automobili americane debbano pagare tariffe del 10% per entrare nel mercato europeo, mentre le vetture
europee pagano soltanto il 2,5% per entrare negli Stati Uniti. Una disparità che Trump considera inaccettabile e che punta a correggere. Il suo scopo è chiaro: incentivare la produzione interna,
creare nuovi posti di lavoro stabili negli USA, incrementare il gettito fiscale e attirare più investimenti stranieri sul suolo americano.
Il terzo pilastro della strategia economica riguarda una promessa di
riduzione significativa delle tasse, che potrebbe realizzarsi solo se gli Stati Uniti riusciranno a raggiungere un surplus grazie alle due precedenti misure. Trump ha annunciato che in caso di
surplus fiscale eliminerà completamente le tasse per i redditi superiori a 150.000 dollari, mentre le imposte sulle società saranno abbassate dall’attuale 21% al 15%. Un livello estremamente
competitivo rispetto alla media europea, che si aggira attorno al 22%, con Paesi come Germania e Francia che applicano aliquote ancora più elevate. Questo farebbe degli USA una delle destinazioni
imprenditoriali più ambite al mondo.
Le reazioni e il “caso” Italia
Tuttavia, questa politica aggressiva non è priva di conseguenze
negative immediate. Wall Street ha già risposto con una forte volatilità e pesanti perdite: il Nasdaq ha registrato una diminuzione del 4,5%, Apple ha perso il 7%, mentre Amazon e Tesla hanno subito
contrazioni superiori al 6%.
Sul fronte internazionale, le reazioni non si sono fatte attendere e
sono improntate a una forte preoccupazione. In Italia, in particolare, Confindustria Accessori Moda ha segnalato il rischio concreto di una significativa contrazione delle esportazioni Made in Italy
negli USA. Anche Federvini e il Consorzio Parmigiano Reggiano hanno espresso forti timori per le conseguenze negative sulla competitività delle imprese agroalimentari italiane e per i danni
potenziali all'interscambio commerciale transatlantico. Cristina Scocchia, amministratrice delegata di Illy Caffè, sta valutando di trasferire direttamente negli Stati Uniti la produzione destinata
al mercato americano, proprio per evitare i pesanti dazi imposti da Trump. Ricordiamo che l’agroalimentare italiano esportato negli USA vale complessivamente 7,8 miliardi di euro. Il mercato
americano è particolarmente significativo per il nostro vino italiano, con esportazioni pari a circa 2 miliardi di euro, ovvero il 25% del totale export vinicolo nazionale (8,1 miliardi). In questo
settore, l’Italia rischia una riduzione delle esportazioni del 16%, situazione che appare più grave rispetto ad altri produttori europei come Francia e Spagna. Letizia Cesani, presidente di
Coldiretti Toscana, ha sottolineato che molti posti di lavoro sono in pericolo: ad esempio, il 35% della produzione del Chianti Classico è destinato agli Stati Uniti. Anche il settore della moda
toscana risulta altamente vulnerabile, con dazi tra il 10% e il 20% che potrebbero far salire di 14-24 miliardi di dollari il costo dell'abbigliamento e di 6,4-10,7 miliardi di dollari quello delle
calzature per i consumatori americani. Claudia Sequi, presidente di Assopellettieri, ha dichiarato che tutte le aziende, dalle più piccole ai grandi marchi, sono esposte al rischio. Per un'altra
regione come l'Abruzzo gli USA rappresentano il primo mercato d’esportazione con il 17% del totale, pari a 1,6 miliardi di euro, principalmente nei settori vinicolo, agroalimentare, farmaceutico e
meccanico, settori che nel 2024 hanno visto una crescita eccezionale del 160% rispetto al 2023. Ma ora, cosa accadrà?
Ripercussioni pesanti
In definitiva, la strategia di Trump appare coerente con le sue
promesse di rilanciare l'economia americana attraverso il ritorno della produzione sul suolo nazionale e la riduzione del debito pubblico. Dall’altro lato, rischia concretamente di scatenare una vera
e propria guerra commerciale globale. Gli effetti potrebbero rivelarsi negativi non solo per le economie colpite dai nuovi dazi, ma paradossalmente anche per gli stessi Stati Uniti, che potrebbero
subire pesanti ripercussioni, soprattutto, in termini di stabilità finanziaria internazionale.
Una deep research con l’AI
Rapporto di analisi: “I dazi USA del 2 aprile 2025 e le loro
implicazioni economiche” – Realizzato con ChatGPT deep research
Ecco una sintesi in 5 punti essenziali del report sui
nuovi dazi USA annunciati il 2 aprile 2025:
- Settori colpiti dai dazi
I dazi USA del 2025 colpiscono soprattutto il
settore automotive (25% su auto importate), i metalli (acciaio, alluminio, lattine), e un’ampia gamma di beni manifatturieri e di consumo a seconda
del paese di origine. Anche l’agroalimentare è coinvolto indirettamente, tramite ritorsioni previste da altri paesi.
- Motivazioni ufficiali
L’amministrazione USA giustifica i dazi con cinque
argomenti principali:
- Correzione di squilibri commerciali e barriere “sleali”
- Protezione dell’industria e dell’occupazione nazionale
- Sicurezza economica e strategica
- Aumento delle entrate fiscali
- Successo percepito delle misure simili introdotte nel 2018
- Effetti su inflazione e prezzi al
consumo
I dazi agiscono come tasse indirette, facendo
aumentare i prezzi dei beni importati. Analisi storiche mostrano che il rincaro dei prezzi è quasi proporzionale al dazio imposto. Si teme quindi un ritorno dell’inflazione, con particolare impatto
su beni come auto, elettronica, cibo e farmaci.
- Impatto sull’occupazione
Gli effetti sono misti: benefici occupazionali
attesi in settori protetti (es. acciaio, auto), ma perdite previste nei settori a valle (componentistica, esportazioni) e tra le PMI. Il saldo netto potrebbe essere negativo, con stime di
140.000–300.000 posti persi nel medio termine.
- Reazioni internazionali e rischi globali
Le reazioni dei partner commerciali (UE, Cina,
Messico, Canada) includono minacce di ritorsioni, ricorsi al WTO, e misure contro prodotti simbolo USA. A livello globale si temono:
- Rallentamento del commercio mondiale
- Frammentazione delle catene globali del valore
- Rischi di recessione
- Erosione delle regole multilaterali del commercio
Prodotti e settori coinvolti dai nuovi
dazi
Il 2 aprile 2025 gli Stati Uniti hanno annunciato una serie di
dazi aggiuntivi su un ampio ventaglio di prodotti e settori. In particolare:
- Automobili e settore automotive:
è stata imposta un’aliquota del 25% su tutte le automobili prodotte all’estero e
importate negli USA. Questo colpisce sia le vetture europee, giapponesi e coreane, sia le auto assemblate in Messico o Canada destinate al mercato americano. Contestualmente, i costruttori americani
hanno cercato di ottenere eccezioni sui componenti auto importati, dati i forti legami delle supply chain globali (riunioni tra Ford, GM, Stellantis e Casa Bianca sono state
segnalate per limitare l’impatto su parti e componentistica).
- Alluminio e prodotti correlati:
già dal 4 aprile scattano dazi del 25% su tutte le lattine di birra importate e sulle lattine
vuote in alluminio. Queste misure “antipasto” si aggiungono ai dazi del 25% su acciaio e alluminio introdotti in precedenza (Sezione 232), ancora in vigore. Il settore delle materie
prime metalliche rimane dunque altamente protetto, colpendo prodotti come laminati, barattoli, componenti industriali in acciaio e alluminio.
- Prodotti manifatturieri generici per Paese di
origine: l’amministrazione ha adottato un approccio di “reciprocità”
tariffaria verso i partner commerciali. In pratica, vengono applicati dazi aggiuntivi sulle importazioni commisurati alle barriere che quei paesi impongono ai beni americani. Il risultato è
un ventaglio di aliquote differenziate per paese: ad esempio 20% sui beni provenienti dall’Unione Europea, 10% sul Regno Unito, 34% sulla
Cina, 46% sul Vietnam, 32% su Taiwan, 10% sul Brasile, 30% sul Sudafrica, 31% sulla Svizzera, 49%
sulla Cambogia, 24% sul Giappone e 26% sull’India. In pratica, quasi tutti i paesi esportatori verso gli USA sono colpiti – senza eccezioni
significative – con tariffe addizionali su ampia gamma di beni (dai macchinari ai beni di consumo), come confermato dalla Casa Bianca (“i dazi riguarderanno tutti i
Paesi”).
- Settore agroalimentare: sebbene i dazi USA si concentrino maggiormente su prodotti industriali, anche l’agroalimentare risulta indirettamente coinvolto.
Ad esempio, l’Unione Europea ha preannunciato che, in ritorsione ai dazi USA su acciaio/alluminio e altri beni, aggiungerà da metà aprile dazi su prodotti agricoli
come gomme da masticare, pollame, semi di soia e altri beni agroalimentari. Sul fronte USA, possibili tariffe su vini e formaggi europei erano state ipotizzate nelle discussioni
preliminari, anche se l’annuncio del 2 aprile si è focalizzato soprattutto su automobili e prodotti industriali. In ogni caso, i beni alimentari importati (dai latticini europei alla frutta esotica)
potrebbero risentire di aumenti di prezzo a causa delle tariffe generalizzate per paese di provenienza.
In sintesi, i nuovi dazi USA colpiscono principalmente il settore automotive e i beni
industriali/manifatturieri (acciaio, alluminio, macchinari, elettronica, ecc.) provenienti da praticamente tutti i partner commerciali principali. Prodotti di largo consumo confezionati in
materiali d’alluminio (bevande) rientrano anch’essi nelle misure. L’impatto settoriale è dunque molto ampio, spaziando dall’industria pesante all’elettronica di consumo, con particolare enfasi su
comparti come auto, metalli e meccanica. L’elenco seguente riassume alcuni esempi di beni e settori toccati:
- Automotive: automobili complete, componenti (indirettamente) – Dazio 25% sulle vetture estere.
- Metalli (Acciaio/Alluminio): semilavorati, lattine, prodotti finiti in metallo – Dazio 25% (continuazione Sezione 232).
- Macchinari e manufatti UE/Cina: macchine utensili, elettronica, apparecchiature varie – Dazi ~20-34% a seconda del paese.
- Beni di consumo importati: ad esempio elettrodomestici, articoli casalinghi, beni alimentari confezionati – colpiti dalle tariffe generalizzate per origine
geografica (EU, Asia, ecc.).
- Agroalimentare: prodotti agricoli e alimentari importati (formaggi, vini, carni) – potenzialmente soggetti a rincari se provenienti da paesi
colpiti; inoltre possibili coinvolgimenti in successive ritorsioni straniere (soia, whisky, ecc.).
Motivazioni ufficiali dietro l’introduzione dei
dazi
Le ragioni ufficiali addotte dal governo statunitense per giustificare
questi nuovi dazi sono di natura correttiva e strategica, richiamando temi di equità commerciale, protezione industriale e interesse nazionale. Di seguito le principali motivazioni
dichiarate:
- Correggere pratiche commerciali “sleali” e
squilibri: La Casa Bianca sostiene che per decenni gli Stati Uniti siano stati
“derubati” o “saccheggiati” da politiche commerciali scorrette di altri Paesi. Il presidente Trump ha denunciato barriere tariffarie estere molto più alte di quelle statunitensi (ad esempio:
dazio USA del 2,5% sulle auto contro oltre il 10% dell’UE, con IVA al 20% in Europa). In settori come motociclette, l’India applica tariffe fino al 70% e il Vietnam 75%, rispetto a dazi minimi degli
USA. L’introduzione di dazi reciproci mira dunque a “riequilibrare” la situazione tariffaria per avvicinarsi alla reciprocità: ogni paese dovrà affrontare tariffe pari a circa la
metà di quelle che – secondo Washington – esso stesso impone ai prodotti americani. Questo approccio è presentato come un modo per costringere i partner a negoziare barriere più basse su entrambi i
fronti.
- Rilanciare l’industria e l’occupazione
americana: Trump ha descritto il 2 aprile 2025 come “il giorno in cui l’industria americana
è rinata”, proclamando un nuovo “Liberation Day” economico. L’obiettivo dichiarato è proteggere le industrie nazionali dalla concorrenza estera considerata
sleale, in modo da riportare produzione e posti di lavoro negli Stati Uniti. La Casa Bianca afferma in una nota ufficiale che “i dazi funzionano, e il primo mandato di Trump lo dimostra”,
citando studi secondo cui le tariffe introdotte dal 2018 hanno ridotto le importazioni cinesi e “stimolato una maggiore produzione statunitense”. In particolare, un rapporto della
Commissione Internazionale per il Commercio (ITC) del 2023 avrebbe rilevato effetti positivi sulla produzione interna con “effetti molto minori sui prezzi a valle”. L’idea è che proteggendo
il mercato interno, le fabbriche americane possano espandere la produzione per sostituire le importazioni, creando posti di lavoro manifatturieri ben retribuiti.
- Sicurezza economica e nazionale:
sebbene non enfatizzato pubblicamente quanto in passato, l’amministrazione richiama implicitamente motivi di
sicurezza nazionale ed economica. Prodotti come acciaio e alluminio erano già stati tariffati nel 2018 per ragioni di sicurezza strategica; ora, l’ampia gamma di dazi viene
giustificata anche per ridurre dipendenze critiche dall’estero (specie da paesi considerati rivali come la Cina) e tutelare filiere nazionali essenziali. In un contesto globale
instabile (post-pandemia e tensioni geopolitiche), ricostruire la capacità produttiva interna è presentato come un baluardo per l’economia nazionale.
- Aumentare entrate fiscali e ridurre i
deficit: Un altro argomento esplicito è il beneficio finanziario per lo Stato. Peter
Navarro, consigliere della Casa Bianca, ha stimato che “le nuove tariffe porteranno nelle casse pubbliche 600 miliardi di dollari all’anno” di gettito. Questa cifra, che include
circa 100 miliardi derivanti dai dazi sulle auto importate, verrebbe utilizzata per ridurre il debito pubblico e il disavanzo commerciale. In altre parole, tassare le importazioni
dovrebbe sia diminuire le importazioni stesse (riducendo il deficit commerciale), sia fornire un flusso di entrate fiscali per finanziare programmi interni o contenere il debito. L’amministrazione
sostiene che una tariffa fissa (ipotizzata al 20%) su tutte le importazioni potrebbe garantire oltre 6 trilioni di dollari di entrate aggiuntive nel lungo periodo.
- Precedente del primo mandato e studi
favorevoli: Per avvalorare la bontà dei dazi, la Casa Bianca cita studi di think tank che
dipingono un impatto gestibile. Ad esempio, l’Economic Policy Institute (EPI) – think tank focalizzato sul lavoro – viene menzionato per aver rilevato che i dazi del 2018 “non
hanno mostrato chiaramente alcuna correlazione con l’inflazione” (smontando l’argomento che i dazi alimentino necessariamente il caro-vita). Inoltre, un’analisi dell’Atlantic
Council viene usata per suggerire che “le tariffe creerebbero nuovi incentivi per i consumatori statunitensi ad acquistare prodotti made in USA”, favorendo quindi l’economia
interna. Queste citazioni selettive indicano la volontà del governo di fornire una base intellettuale alle misure protezionistiche, presentandole non come mosse isolazioniste
ideologiche ma come politiche con fondamento analitico a supporto (sebbene molti economisti esterni siano in disaccordo, come vedremo oltre).
In sintesi, ufficialmente Washington giustifica i dazi come
strumento necessario per ristabilire condizioni di commercio equo, rafforzare l’industria nazionale e tutelare l’economia americana a lungo termine, anche a costo di tensioni a breve
termine. La retorica presidenziale sottolinea il concetto di “reciprocità” e “liberazione” dall’ordine commerciale precedente, ritenuto penalizzante per gli Stati Uniti. Importante
notare che vengono negati secondi fini politici: la Casa Bianca respinge le critiche secondo cui i dazi siano mosse populiste o nazionaliste, insistendo invece sul loro presunto
rigore analitico e efficacia pratica (citando dati di entrate e studi favorevoli). Tuttavia, come vedremo, le analisi indipendenti forniscono valutazioni più cautelative sugli impatti reali di tali
misure.
Effetti a breve termine sull’inflazione e sui prezzi al
consumo
Una delle prime conseguenze attese dei nuovi dazi è un aumento dei
prezzi interni negli Stati Uniti, con potenziali pressioni al rialzo sull’inflazione. I dazi sulle importazioni si comportano infatti come una tassa indiretta sui consumatori: il
costo aggiuntivo tende a essere trasferito nel prezzo finale dei beni importati. Fonti ufficiali europee hanno subito messo in guardia gli USA su questo punto: la presidente della
Commissione UE Ursula von der Leyen ha avvertito che “per gli americani, i dazi sono tasse sul cibo e sui medicinali” e che faranno “tornare a correre l’inflazione” negli Stati
Uniti. Questo perché molte merci di consumo quotidiano – dagli alimentari ai farmaci, dall’abbigliamento all’elettronica – diverranno più costose per via delle tariffe aggiuntive.
Le dinamiche di traslazione dei dazi nei prezzi al consumo sono
confermate dai dati storici. Un rapporto della Commissione Internazionale sul Commercio (USITC) ha rilevato che, nel periodo 2018-2021, gli importatori USA hanno assorbito quasi per intero il
costo dei dazi: “i prezzi all’importazione sono aumentati in misura quasi identica alle tariffe” imposte
msci.org
. In particolare, per ogni +1% di dazio, i prezzi
import sono saliti di circa +1%, segno di un pass-through quasi completo
msci.org
. Ciò significa che le imprese che importano beni
dall’estero hanno scaricato gli extra-costi direttamente sui compratori a valle, siano essi aziende utilizzatrici o consumatori finali. Ad esempio, i dazi su acciaio introdotti nel 2018 hanno fatto
aumentare i prezzi interni dell’acciaio del 2,4% (a fronte di una tariffa del 25% applicata) e quelli sull’alluminio dell’1,6%, generando rincari analoghi nei prodotti finiti
contenenti tali metalli
msci.org
. I settori a valle che usano
acciaio/alluminio hanno visto i propri costi salire e hanno dovuto alzare i prezzi output in media dello 0,2%
msci.org
.
Sul piano macroeconomico, l’effetto inflazionistico
dei nuovi dazi USA potrebbe essere significativo nel breve periodo. Stime e opinioni da fonti autorevoli indicano quanto segue:
- L’UE prevede un ritorno dell’inflazione USA su ritmi
sostenuti, dopo che a marzo 2025 era in calo al 2,2% annuo. L’aggiunta di nuove “tasse” sulle importazioni rischia di vanificare i progressi nel contenimento dei prezzi. Von der Leyen ha
esplicitamente dichiarato che tali dazi “faranno correre l’inflazione” negli Stati Uniti, rendendo più difficile il lavoro della Federal Reserve nel mantenere la stabilità dei
prezzi.
- Analisti finanziari e investitori
condividono questi timori. Morningstar nota che tariffe più alte tendono ad aumentare l’inflazione, complicando le
mosse delle banche centrali e alimentando incertezza nei mercati
morningstar.it
. L’aumento dei costi di importazione agisce
infatti come uno shock inflazionistico dell’offerta: prezzi in salita senza un corrispettivo aumento di produttività. Questo scenario obbligherebbe eventualmente la Fed a una politica monetaria più
restrittiva di quanto altrimenti necessario, con il rischio di raffreddare ulteriormente l’economia.
- Esempi concreti di rincari al consumo:
beni importati come automobili straniere, elettronica di consumo (TV, smartphone), abbigliamento e alimentari esotici
subiranno aumenti. Un’analisi spiega il meccanismo con un esempio alimentare: se gli USA introducono un dazio (es.) di 1 dollaro per ogni kg di formaggio importato, l’importatore americano pagherà
quel dollaro in dogana e “aumenterà di un dollaro il prezzo” al dettaglio per recuperare il costo. In definitiva, “chi paga, alla fine, è il consumatore statunitense”. Questo
processo diffuso “porta innanzitutto all’aumento dell’inflazione” interna. Proprio tali ragioni rendono i dazi una misura potenzialmente controproducente in fasi in cui l’inflazione è già
oggetto di attenzione.
Va notato che il governo USA minimizza questo
rischio, citando come detto l’EPI, secondo cui i dazi precedenti non avrebbero mostrato correlazione chiara con l’inflazione. In realtà, molti economisti ritengono che l’assenza di forte
inflazione nel 2018-2019 con i dazi Trump dipese da altri fattori (es. rallentamento economico globale, politiche monetarie) e che i dazi comunque abbiano modesto contributo al rialzo dei prezzi.
Ora, però, con tariffe ben più estese, l’impatto potrebbe essere più marcato.
In sintesi, nel breve termine è lecito attendersi un incremento dei prezzi al consumo negli USA, specialmente per quei
prodotti importati colpiti direttamente dalle nuove tariffe. L’effetto sul tasso d’inflazione potrebbe manifestarsi nei trimestri successivi all’introduzione: alcuni osservatori prospettano alcuni
decimi di punto percentuale aggiuntivi di inflazione core nel 2025. Questa tendenza, se confermata, eroderebbe il potere d’acquisto delle famiglie americane, vanificando in parte i
benefici di eventuali incrementi salariali, e porrebbe dilemmi alla politica monetaria (costretta a scegliere se contrastare l’inflazione da costi o supportare la crescita in
rallentamento). Non a caso Larry Fink (CEO di BlackRock) ha avvertito che il conto finale dei dazi rischia di essere pagato “dagli americani in termini di caro-prezzi”, con conseguenze anche
sui risparmi e i mercati finanziari.
Impatto sull’occupazione interna negli Stati Uniti (benefici e
perdite attese)
Sul fronte dell’occupazione nazionale, i dazi
producono effetti contrastanti: favoriscono alcuni settori protetti, dove possono salvaguardare o creare posti di lavoro, ma ne penalizzano altri (settori a valle o
esportatori) dove si possono perdere impieghi a causa di costi più alti o ritorsioni estere. Un’analisi equilibrata deve dunque considerare sia i potenziali benefici occupazionali in
determinati comparti, sia le perdite attese altrove, valutando il saldo netto sull’economia americana.
Benefici occupazionali attesi nei settori
protetti: Le tariffe dovrebbero stimolare la domanda di prodotti nazionali in sostituzione
delle importazioni, portando le aziende americane ad aumentare la produzione e l’occupazione. Esempi:
- Nel settore dell’acciaio e alluminio, i dazi
precedenti (25%) hanno contribuito a una crescita della produzione interna: nel 2021 la produzione USA di acciaio era di 1,3 miliardi di $ più alta rispetto a quanto
sarebbe stata senza dazi
msci.org
, con un aumento del +1,9% della produzione di
acciaio negli USA dovuto alle tariffe
msci.org
. Analogamente, la produzione di alluminio è salita
del +3,6% (pari a +0,9 miliardi $) grazie ai dazi
msci.org
. Questa maggiore attività industriale ha sostenuto
migliaia di posti di lavoro nelle acciaierie e fonderie domestiche. Stime indicano che le tariffe su acciaio/alluminio varate nel 2018 hanno direttamente supportato circa 30 mila posti di
lavoro in quei settori di base. Nel 2025, con tariffe estese ad altri comparti (es. automotive), ci si aspetta un effetto simile: assunzioni o mantenimento di posti in
stabilimenti automobilistici, siderurgici, impianti di componentistica e altre fabbriche che servono il mercato interno, ora più protetto.
- Nel settore automotive, l’imposizione del 25% sulle
auto straniere incentiverà l’acquisto di auto prodotte domesticamente. Case automobilistiche americane (Ford, GM, Stellantis) potrebbero aumentare la produzione nazionale per
soddisfare la domanda lasciata scoperta dalle importazioni più costose. Già solo evitare la concorrenza di vetture europee e asiatiche dovrebbe preservare occupazione negli impianti USA.
L’amministrazione stima introiti di 100 miliardi $/anno dai dazi auto, segno di un vasto volume di vendite tassate che – nelle intenzioni – dovrebbe tradursi in vendite aggiuntive per le auto “made
in USA”. In tal senso, nel breve termine alcuni incrementi occupazionali sono attesi presso gli stabilimenti automobilistici americani e nella loro filiera locale (fornitori
di parti, acciaierie automotive, ecc.), sebbene in parte mitigati dalla carenza di componenti importati a basso costo.
- Anche altri comparti manifatturieri (dall’elettronica all’arredo)
potrebbero vedere modeste crescite occupazionali dovute al fenomeno di “reshoring” forzato: taluni prodotti che conveniva importare potrebbero venir realizzati in patria. Ad esempio,
l’Atlantic Council sostiene che le tariffe creano “nuovi incentivi per i consumatori statunitensi ad acquistare prodotti made in USA”, il che incoraggia le imprese ad espandere la capacità
produttiva nazionale, potenzialmente generando nuovi posti di lavoro nel lungo termine.
Perdite occupazionali attese nei settori colpiti (e saldo
netto): D’altro canto, numerosi economisti prevedono che il saldo complessivo
sull’occupazione USA sarà negativo, poiché le perdite di posti di lavoro nei settori penalizzati supereranno i guadagni nei settori protetti. Le ragioni principali sono: costi maggiori per i
produttori a valle, calo delle esportazioni USA per ritorsioni, e aumento generale dei prezzi che deprime la domanda. Vediamo alcune analisi chiave:
- La Federal Reserve di Richmond ha stimato gli
effetti combinati dei dazi del 2018-2019, trovando che essi hanno comportato una riduzione netta dell’occupazione negli Stati Uniti. In particolare, si calcola che quei dazi abbiano
causato la perdita di circa 220.000 posti di lavoro nei settori fortemente dipendenti da input importati (a causa dell’aumento dei costi di produzione) e, includendo l’effetto delle
ritorsioni cinesi sulle esportazioni USA, la contrazione occupazionale sale a ~320.000 posti. Questo rappresenta circa il 2,6% dell’occupazione manifatturiera USA.
In sintesi, lo studio conclude che gli effetti economici dei dazi 2018-19 – “pur beneficiando un insieme limitato di industrie domestiche” – hanno prodotto “un risultato netto
negativo” per l’economia americana. Proiettando tali risultati sul nuovo round di dazi 2025 (ancora più ampio), diversi economisti paventano perdite occupazionali ben maggiori,
potenzialmente nell’ordine di alcune centinaia di migliaia di posti nei prossimi anni, dovute a chiusure di imprese meno competitive e calo delle vendite
all’estero.
- Il Tax Foundation, think tank di orientamento
fiscale, ha simulato gli effetti di lungo periodo dei dazi: i dazi imposti nel 2017-2018 hanno ridotto il PIL potenziale USA di 0,2 punti percentuali e “una politica simile – se non più
aggressiva – porterà a una perdita di 142 mila potenziali occupati nei prossimi anni”. Dunque circa 142.000 americani in meno avrebbero un impiego rispetto allo scenario senza dazi, nel
medio-lungo termine. Questa stima, focalizzata sul potenziale di crescita, suggerisce che i dazi attuali potrebbero frenare l’espansione dell’occupazione su base pluriennale, con effetti persistenti
ben oltre il breve periodo.
- I settori a valle (imprese che utilizzano componenti
importate) rischiano licenziamenti e tagli. Il già citato rapporto USITC evidenzia che a causa dei maggiori prezzi delle materie prime protette, la produzione dei settori downstream nel 2021
era inferiore di 3,5 miliardi $ rispetto allo scenario senza dazi
msci.org
. Ciò implica minori vendite e, presumibilmente,
meno occupati in quei comparti (ad esempio aziende metalmeccaniche che hanno dovuto ridurre la produzione per l’aumento del costo dell’acciaio). Con l’estensione dei dazi nel 2025,
settori come l’automotive (sul lato componenti e assemblaggio di modelli che dipendevano da parti estere), l’aerospaziale, l’elettronica e il machinery potrebbero dover ridimensionare i
propri organici per far fronte all’aumento dei costi e alla possibile contrazione dei margini/produttività.
- Le ritorsioni commerciali da parte dei partner
(trattate più avanti) colpiranno a loro volta le industrie esportatrici americane, come l’agricoltura, l’aeronautica, la tecnologia. Dazi di ritorsione sui prodotti USA ridurranno la competitività di
questi ultimi all’estero, portando a cali di ordini e potenzialmente a esuberi di personale in aziende orientate all’export. Il Fondo Monetario Internazionale ha già avvertito che,
se mantenute, le tariffe USA (come quelle del 25% su Canada e Messico) “potrebbero avere un impatto significativo” sulle economie di quei paesi – il che presagisce contromisure; situazioni
simili nel 2018 videro, ad esempio, la Cina annullare l’acquisto di prodotti agricoli USA, causando un eccesso di offerta interno e difficoltà per migliaia di agricoltori americani. In definitiva, i
lavoratori americani impiegati nei settori colpiti indirettamente (esportazioni ostacolate o input rincarati) rischiano quanto meno una riduzione delle ore lavorate o dei salari, se
non veri e propri tagli di posti.
Bilancio complessivo: A fronte di alcuni segmenti industriali che potrebbero assumere (acciaierie, fonderie, assemblaggi auto, forse alcune fabbriche
elettroniche riconvertite), il consenso degli economisti è che il saldo netto sull’occupazione USA sarà probabilmente negativo o, nel migliore dei casi, solo lievemente
positivo con costi elevati per posto di lavoro “salvato”. Un’analisi di Moody’s Analytics avverte che uno scenario estremo di dazio universale (20% su tutte le importazioni) farebbe
schizzare il tasso di disoccupazione USA al 7,3% (dal ~3,5% pre-dazi), sintomo di una forte contrazione occupazionale. Anche scenari più moderati comportano aumenti della
disoccupazione rispetto al trend.
Detto ciò, esistono opinioni divergenti: l’Economic Policy Institute
ha contestato stime catastrofiche di perdita di posti (come uno studio che ipotizzava -146 mila posti per i dazi su acciaio), sostenendo che modelli più realistici mostrano perdite molto
inferiori (forse poche migliaia di posti) per quei specifici dazi. Secondo EPI, modelli che assumono piena occupazione tendono a ridurre al minimo gli effetti negativi, poiché l’economia si
riassesta. Quindi, se il mercato del lavoro americano restasse vicino alla piena occupazione, gli effetti potrebbero manifestarsi più in variazioni di salario che in disoccupazione.
Tuttavia, con i dazi del 2025 estesi a quasi tutti i settori, è plausibile attendersi quantomeno un rallentamento delle nuove assunzioni e una maggiore prudenza da parte delle
aziende, se non licenziamenti, specialmente se l’economia rallenta contemporaneamente.
In conclusione, i dazi del 2025 offrono benefici occupazionali
concentrati (in industrie specifiche e spesso altamente automatizzate, come l’acciaio, dove l’impatto occupazionale diretto è modesto in numeri assoluti) a fronte di costi
occupazionali diffusi in settori più ampi (manifattura a valle, agricoltura, logistica, distribuzione). Governi e think tank pro-dazi enfatizzano i lavoratori “salvati” nella rust belt
industriale; gli economisti più critici sottolineano i posti di lavoro persi altrove e il rischio di un saldo negativo, con possibili 142 mila
occupati in meno in futuro secondo il Tax Foundation o ancor peggio in scenari recessivi. La cautela è dunque d’obbligo: il mercato del lavoro USA, finora robusto, potrebbe iniziare a mostrare
segnali di indebolimento man mano che le tariffe si ripercuoteranno sull’economia reale.
Reazioni dei partner commerciali e rischio di
ritorsioni
L’annuncio dei dazi USA del 2 aprile 2025 ha suscitato forti
reazioni da parte dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, con toni che vanno dalla preoccupazione alla ferma condanna, fino alla minaccia esplicita di misure di
ritorsione. La prospettiva di una guerra commerciale su larga scala ha spinto governi e organizzazioni internazionali a preparare contromosse. Ecco una panoramica delle
reazioni:
- Unione Europea: La UE, colpita da un dazio “reciproco” generalizzato del 20% sui suoi beni, ha reagito in modo compatto. La Presidente Ursula von
der Leyen ha definito i dazi USA “ingiustificati” e ha avvertito che l’Europa è pronta a rispondere “in modo unitario, determinato e giustificato”. Bruxelles preferirebbe evitare
l’escalation (“il nostro obiettivo è una soluzione negoziata”), ma ha preparato un piano solido di ritorsioni se i negoziati fallissero. In particolare, l’UE potrebbe
colpire settori simbolo americani, con misure equilibrate tra gli Stati membri. Già durante l’iter di preparazione, esponenti europei hanno menzionato la possibilità di prendere di
mira i giganti tecnologici americani (Big Tech) con tassazioni o restrizioni, come forma di pressione
ansa.it
italianinews.com
. “Se Trump mette i dazi, colpiremo le Big
Tech” ha dichiarato Manfred Weber, leader del PPE al Parlamento Europeo
ansa.it
, suggerendo che la risposta UE potrebbe
concentrarsi sui servizi digitali americani, dato che gli USA hanno colpito i beni europei. Inoltre, la UE aveva già annunciato misure ritorsive per i dazi su acciaio/alluminio in
vigore: tariffe del 50% su prodotti iconici USA (whisky bourbon, motociclette Harley-Davidson, motoscafi) e ulteriori dazi su beni agroalimentari statunitensi. È probabile che queste
misure entrino in vigore tra pochi giorni, come pianificato, e possano essere ampliate. In sostanza, l’Europa vuole “proteggere i propri interessi, la propria gente e le proprie aziende”: se
gli USA non recedono, Bruxelles attuerà contromisure proporzionate per disincentivare l’aggressività commerciale americana. Il rischio è una spirale di ritorsioni reciproche che
danneggerebbe entrambe le sponde dell’Atlantico.
- Canada e Messico: Questi paesi, alleati e partner nell’USMCA (NAFTA rinnovato), sono stati colpiti da un dazio del 25% sulle loro esportazioni non
coperte dall’accordo (come alcune categorie di beni non esentate). La reazione è stata immediata. Il Messico ha definito la mossa “offensiva, diffamatoria e infondata”. La
ministra messicana Claudia Sheinbaum ha dichiarato che il suo governo “annuncerà misure in risposta” agli USA. Ciò potrebbe includere dazi su prodotti agricoli americani (mais, soia, carni)
di cui il Messico è grande acquirente, oppure su beni industriali mirati a creare pressione politica (ad esempio colpire esportazioni statunitensi in stati chiave). Il Canada ha
anch’esso preparato una lista di ritorsioni: già dopo i dazi del 2018 Ottawa aveva risposto con tariffe su 20,6 miliardi di dollari di beni importati dagli USA. Ora il governo
canadese, deluso dal mancato esonero, potrebbe estendere tali misure. Il FMI ha avvertito che le tariffe su Canada e Messico avranno impatti significativi su di loro, segno che uno scontro
commerciale nel Nord America è in atto. Entrambi i paesi potrebbero contestare i dazi in sede WTO (ritenendoli illegittimi se violano l’USMCA o regole multilaterali) e nel frattempo
imporre dazi compensativi su beni USA: ad esempio, il Canada potrebbe colpire prodotti statunitensi simbolici (vino californiano, prodotti alimentari, attrezzature industriali) e il
Messico ha paventato persino stop alla cooperazione in altri campi se la situazione degenerasse.
- Cina: La Cina, bersaglio di un dazio aggiuntivo del 34% (portando le tariffe totali su molti suoi prodotti a livelli astronomici,
considerando anche i dazi del 25% già esistenti su 250+ miliardi di export cinese)
bloomberg.com
washingtonpost.com
, ha reagito con durezza. Pechino ha promesso
ritorsioni proporzionate e “combattive”. Fonti Bloomberg riferiscono che la Cina ha minacciato contromisure su praticamente tutte le importazioni dagli USA e misure
non tariffarie: ad esempio, restrizioni alle esportazioni di terre rare e materiali critici (cui l’industria USA high-tech è vulnerabile), intensificazione dei controlli e delle sanzioni sulle
aziende americane in Cina, boicottaggi mirati di prodotti statunitensi da parte di consumatori cinesi incoraggiati dal governo. Il ministero del Commercio cinese ha definito le tariffe USA “una
grave violazione delle regole commerciali internazionali” e ha presentato ricorso al WTO. Inoltre, i cinesi potrebbero riecheggiare la strategia del 2018
colpendo le esportazioni agricole USA: soia, mais, carne suina e bovina, frutti di mare – settori dove la Cina è un acquirente primario – potrebbero essere soggetti a nuovi dazi
cinesi, causando un contraccolpo pesante sugli agricoltori americani. Questo rischio è concreto e già scontato dagli analisti: quando tariffe USA simili furono ipotizzate, “un dazio del 54% sui
beni dalla Cina potrebbe condurre a un calo del 90% delle importazioni cinesi negli USA”
news.bloomberglaw.com
, e ovviamente la Cina reagirebbe con forza
equivalente. Pechino ha anche intensificato il dialogo con altri partner asiatici (es. ha partecipato a un summit con Corea del Sud e Giappone) per rafforzare la cooperazione commerciale regionale e
“prepararsi ad arginare i dazi degli Stati Uniti”. Ciò indica un possibile riallineamento geopolitico del commercio, con la Cina che cerca sponde altrove mentre è in rotta
di collisione con Washington.
- Altri partner asiatici ed emergenti:
Paesi come il Giappone (dazio USA 24%), la Corea del Sud, l’India
(26%), il Vietnam (46%) hanno manifestato preoccupazione e alcuni hanno segnalato possibili ritorsioni. L’India potrebbe alzare a sua volta le barriere su prodotti americani (ad
esempio moto Harley-Davidson, che Nuova Delhi già tassi al 50% in risposta ai vecchi dazi USA). Il Vietnam, definito “manipolatore” da Trump per via dei surplus, subendo un dazio così alto
(46%) rischia di perdere l’accesso al mercato USA per molti settori; Hanoi potrebbe cercare ricorso multilaterale, ma essendo più debole economicamente, avrà poche leve bilaterali (forse
intensificherà i rapporti con Cina/UE). Il Giappone ha espresso “profondo rammarico” e starebbe valutando contro-dazi su beni USA (ad esempio sui prodotti agricoli
come frumento e carne importati dagli Stati Uniti, molto consumati in Giappone, o su apparecchiature tecnologiche USA). Complessivamente l’Asia-Pacifico vede con allarme la mossa americana:
l’Australia (sebbene alleata) teme di essere colpita indirettamente e il suo governo sta negoziando per esenzioni settoriali, mentre nazioni come Corea del Sud e Giappone coordinano
risposte diplomatiche (il citato dialogo trilaterale con la Cina).
- Organizzazioni internazionali:
Il WTO ha ribadito l’importanza di attenersi alle regole e sta esaminando i reclami presentati da UE,
Cina e altri. La direttrice Ngozi Okonjo-Iweala ha avvertito che una guerra commerciale generalizzata sarebbe “catastrofica” per l’economia globale
globaltrainingcenter.com
e mina il sistema commerciale multilaterale guidato
dagli USA stessi dal dopoguerra
reuters.com
. Si teme un indebolimento ulteriore del WTO se
grandi economie ignorano le sue regole. Il FMI e la Banca Mondiale hanno espresso timori per le ripercussioni sui paesi emergenti e sulla stabilità finanziaria:
tensioni commerciali possono provocare fughe di capitali dai mercati emergenti e volatilità valutaria. Anche forum come il G20 vedranno con ogni probabilità la questione in agenda,
con pressioni multilaterali sugli USA perché moderino la loro posizione.
In definitiva, il rischio di un’escalation di misure
ritorsive è elevato. Molti partner hanno già elenchi di beni USA da colpire in risposta: tipicamente si scelgono prodotti emblematici e politicamente sensibili (es. le esportazioni
agricole USA per colpire gli stati rurali pro-Trump; i prodotti di aziende iconiche come motociclette, jeans, bourbon, le Big Tech per colpire Wall Street e
la Silicon Valley). L’UE ha sottolineato di voler calibrare la risposta per massimizzare l’impatto politico su Washington senza danneggiare eccessivamente i propri interessi
rainews.it
rainews.it
. Ad esempio, colpire i colossi digitali USA (che
pagano poche tasse in Europa, secondo Weber
ansa.it
) potrebbe ottenere consenso interno europeo e
mettere pressione su un settore chiave USA, evitando però di penalizzare troppo i consumatori europei (dato che tassare servizi digitali non incide come tassare beni di consumo).
Il dialogo diplomatico non è tuttavia interrotto:
sono previste visite e colloqui (il Vicepresidente USA J. D. Vance è atteso in Europa entro fine mese, e il commissario UE al Commercio continua a confrontarsi con Washington)
rainews.it
. Entrambe le parti sanno che una guerra commerciale
aperta farebbe male a tutti e potrebbero cercare compromessi. Tuttavia, come ha notato un osservatore, “i dazi fanno male a tutti” e l’Europa “non ha dato inizio allo scontro”,
quindi politicamente la UE si sente in dovere di reagire.
In conclusione, l’imposizione unilaterale di dazi USA ha
innescato tensioni globali: i partner chiave minacciano ritorsioni equivalenti, e si prospetta un periodo di incertezza e conflittualità commerciale. Se nessuna
delle parti cederà, potremmo assistere a un ciclo di dazi e controdazi che ricorda (in scala amplificata) la guerra dei dazi del 2018-2019. Ciò aumenterebbe ulteriormente i costi
economici per tutte le economie coinvolte, accentuando il rischio di recessione globale. La prossima sezione analizza proprio le conseguenze sistemiche sul commercio mondiale e sulle catene del
valore.
Conseguenze sul commercio globale e sulle catene del
valore
L’introduzione di dazi diffusi da parte della prima economia mondiale
rischia di avere ampie ripercussioni sul commercio globale e sul funzionamento delle moderne catene del valore internazionali. Di seguito esaminiamo gli impatti
attesi:
- Rallentamento del commercio mondiale:
Le tariffe elevate tendono a ridurre i volumi degli scambi internazionali. Beni precedentemente
importati diventeranno più costosi e potrebbero essere acquistati in minori quantità o da fonti alternative. Il WTO aveva previsto per il 2025 una moderata crescita del commercio
(+3,3% in volume)
wto.org
, ma questi sviluppi rappresentano un rischio al
ribasso. Stime di banche d’affari indicano crolli drastici per alcuni flussi: con le nuove tariffe, le importazioni USA dalla Cina potrebbero calare fino al 90% per certi prodotti,
dato che l’aliquota tariffaria combinata supera il 50%
news.bloomberglaw.com
. In generale, si prospetta una contrazione
del commercio globale poiché gli Stati Uniti ridurranno le importazioni (volutamente) e i partner, frenati economicamente, compreranno meno a loro volta. Il risultato potrebbe essere un
ritorno dei volumi commerciali mondiali ai livelli di diversi anni fa, interrompendo la ripresa post-pandemica.
- Rischio recessione globale:
Organismi internazionali avvertono che un’escalation tariffaria potrebbe spingere l’economia mondiale in recessione.
Moody’s Analytics ha lanciato l’allarme che l’imposizione di tariffe generalizzate potrebbe avere effetti così pesanti da innescare una grave recessione mondiale.
Anche l’OCSE, nel suo outlook di marzo 2025, ha tagliato le previsioni di crescita globale al 3,1% (dal 3,3%) per il 2025, assumendo l’entrata in vigore dei dazi USA su Canada e
Messico. Ha avvertito che “un aumento maggiore e più ampio delle barriere commerciali colpirebbe la crescita in tutto il mondo e aumenterebbe l’inflazione”. Se la situazione degenerasse,
paesi fortemente orientati all’export potrebbero scivolare in recessione: l’OCSE stima che il Messico potrebbe essere spinto in una “profonda recessione nel 2025” e che il
PIL del Canada crescerebbe solo dello 0,7% (ben 1,3 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni precedenti). Allargando il quadro, l’FMI ha sottolineato che
una guerra commerciale prolungata “potrebbe porre rischi alla crescita globale”, con alcune proiezioni che indicano un possibile impatto negativo di diversi decimi di punto sul PIL mondiale
in pochi anni
infomineo.com
. In sintesi, c’è consenso sul fatto che queste
misure protezionistiche estese rappresentino un vento contrario significativo per l’economia globale, arrivando in un momento in cui molti paesi stanno ancora recuperando dalla
pandemia e affrontando altre incertezze (tensioni geopolitiche, crisi energetica, etc.).
- Disgregazione delle catene globali del
valore: Negli ultimi decenni circa due terzi del commercio mondiale avvenivano
in regime di libero scambio o tariffe minime grazie ad accordi internazionali. Con l’imposizione di dazi elevati, si rischia di frammentare le filiere produttive globali. Molte
industrie (automotive, elettronica, abbigliamento) hanno catene di approvvigionamento complesse che attraversano più paesi: pezzi prodotti in Cina, assemblaggi in Messico, componenti dall’Europa,
ecc. I dazi costringono le imprese a ristrutturare queste filiere, cercando di produrre di più localmente o in paesi non colpiti da tariffe (il che però, vista l’ampiezza delle
misure USA, lascia poche “aree franche”). Ad esempio, alcune aziende europee hanno già strategie per localizzare la produzione negli USA ed evitare i dazi: Tetra Pak (Svezia) produce
imballaggi in Texas, Goglio (Italia) in Florida; colossi alimentari come Ferrero e Nestlé hanno decine di stabilimenti negli USA. Queste mosse,
inizialmente concepite per avvicinarsi al mercato, ora diventano essenziali per aggirare i dazi. Altre aziende italiane citate (Rummo, Latteria Soresina) senza base produttiva USA
stanno valutando di “assorbire i costi” o trovare soluzioni tampone. In generale, si assisterà a un’accelerazione del fenomeno di “localizzazione” o “regionalizzazione” delle supply
chain: le imprese produrranno nel mercato di vendita finale (es. USA) per evitare tariffe, oppure in regioni con accordi preferenziali. Ciò potrebbe ridurre l’efficienza complessiva
(perdendo i vantaggi comparativi della specializzazione internazionale) e aumentare i costi di produzione. Settori come l’elettronica di consumo, abituati a catene globali just-in-time, potrebbero
subire ritardi e rincari dovendo riprogettare la logistica e i fornitori.
- Ridefinizione delle alleanze
commerciali: Paesi esclusi dalle relazioni commerciali tradizionali potrebbero stringere nuovi
accordi tra loro. Come accennato, Cina, Giappone e Corea del Sud hanno tenuto il primo dialogo economico trilaterale da 5 anni per discutere un potenziale accordo di libero scambio
regionale. Anche la UE potrebbe rafforzare i legami con partner asiatici o sudamericani per compensare la minore accessibilità del mercato USA. Ad esempio, l’Europa potrebbe accelerare accordi
commerciali con l’ASEAN, l’India o approfondire quelli con il Mercosur sudamericano per diversificare i mercati. Gli stessi USA, paradossalmente,
potrebbero spingere alcuni alleati storici a cercare maggiore indipendenza: il Regno Unito, pur “risparmiato” relativamente (dazio USA 10%), ha dichiarato di voler essere “il
Paese meglio piazzato per evitare i dazi americani”
radiosenisecentrale.it
– il che potrebbe implicare concessioni o accordi
bilaterali ad hoc con Washington, introducendo discriminazioni tra partner e un sistema di accordi “ad hoc” fuori dal quadro multilaterale. Tutto questo indebolisce il sistema
commerciale basato su regole WTO, sostituendolo con una logica di blocchi e accordi bilaterali. La direttrice del WTO ha notato che la quota di commercio globale sotto
l’egida WTO è scesa dall’80% al 75% circa, in parte a causa di nuovi dazi e accordi preferenziali esclusivi
reuters.com
. Un ulteriore aumento di barriere può ridurre
quella quota, segnalando una pericolosa erosione dell’universalità delle regole commerciali.
- Impatto sulle economie emergenti e in via di
sviluppo: Queste economie sono spesso terze parti nelle catene globali. Ad
esempio, paesi asiatici emergenti producono componenti intermedi per la Cina, che poi assembla per gli USA. Con il calo di domanda dagli USA, potrebbero subire contraccolpi indiretti. Inoltre, i dazi
differenziati penalizzano di più i paesi in via di sviluppo: va ricordato che in settori come l’agricoltura le tariffe MFN medie per i prodotti dei paesi poveri sono già alte (~20%), e ora l’accesso
al mercato USA diventa ancor più difficile. I Paesi meno sviluppati potrebbero perdere opportunità di esportazione e investimenti, aggravando squilibri. È probabile anche un aumento del
contenzioso commerciale: alcuni paesi emergenti potrebbero appellarsi al principio di nazione più favorita presso il WTO, sostenendo di essere discriminati. Se gli USA ignorassero
eventuali sentenze WTO sfavorevoli (come fecero in parte durante la guerra dei dazi precedente), l’effetto sarebbe di delegittimare ulteriormente le istituzioni globali.
In definitiva, le conseguenze globali delineano un quadro di
minore integrazione economica internazionale e maggiore frizione commerciale. L’incertezza elevata sulle politiche commerciali – definita “il
peggior nemico degli investitori” – può frenare nuovi investimenti produttivi, sia domestici sia esteri, e spingere gli operatori a strategie difensive. Molte imprese multinazionali hanno
sospeso decisioni in attesa di capire l’evoluzione delle tariffe e delle eventuali esenzioni. Questo clima di attesa e timore frena la crescita. Come nota Thomson di T. Rowe Price, “un aumento
dell’inflazione, l’interruzione delle catene di approvvigionamento e misure di ritorsione dei partner possono avere un impatto negativo sulla stabilità economica globale”, e data la posizione
dominante degli USA “una recessione degli Stati Uniti avrebbe un impatto negativo sui mercati di tutto il mondo”.
C’è anche uno scenario più ottimistico: se queste mosse spingessero
entro pochi mesi a nuove negoziazioni commerciali (ad esempio un grande accordo USA-UE per ridurre tariffe e barriere reciproche, o aggiustamenti con la Cina su pratiche sleali), il
commercio globale potrebbe riprendersi. Tuttavia, nel breve termine, prevalgono i rischi di contrazione e disordine nelle catene globali. Le imprese e i governi
stanno adattandosi a un mondo più segmentato, con costi di transizione potenzialmente alti.
Effetto previsto su specifici settori industriali
statunitensi
L’impatto dei dazi del 2025 varia sensibilmente tra i diversi settori
industriali negli Stati Uniti. Alcuni comparti trarranno vantaggio dalla protezione, mentre altri subiranno costi e contraccolpi significativi. In questa sezione analizziamo le prospettive per
automotive, elettronica/high-tech, agricoltura e altri settori chiave:
- Automotive (auto e componentistica):
Questo settore è al centro delle misure. Il dazio del 25% sulle auto importate renderà le vetture straniere (e.g.
tedesche, giapponesi, coreane) molto più care sul mercato USA, probabilmente di diversi migliaia di dollari in più per veicolo. Ciò dovrebbe favorire le vendite delle case
automobilistiche americane sul mercato interno, almeno per quei segmenti dove esiste un’alternativa domestica comparabile. Tuttavia, l’automotive globale è altamente integrato: le
case USA dipendono da molte parti importate (motori, componenti elettronici, trasmissioni dalla Messico/Canada, batterie dall’Asia, ecc.). Questi componenti ora saranno soggetti a
dazi (a meno di esenzioni specifiche ancora da definire), alzando i costi di produzione anche per le auto assemblate in America. Le aziende come Ford e GM rischiano quindi un
aumento del costo unitario dei propri veicoli, che potrebbe riflettersi in prezzi più alti per i consumatori o margini ridotti. Hanno perciò fatto lobbying per escludere almeno parte
della componentistica essenziale dai dazi. Se tali esenzioni non saranno ampie, il rischio è che il prezzo medio delle auto negli USA salga, sia per importate che per domestiche (per
ragioni diverse). Sul fronte dell’occupazione, come detto, a breve termine gli stabilimenti americani potrebbero mantenere o incrementare la forza lavoro per soddisfare la domanda
interna, ma se i costi esplodono e le vendite globali calano, nel medio termine anche i produttori USA potrebbero trovarsi in difficoltà. Inoltre, va considerata la possibile ritorsione
europea: l’UE ha minacciato dazi sulle auto americane (sebbene gli USA ne esportino poche in Europa, colpire ad esempio ricambi auto o moto americani potrebbe comunque avere
qualche effetto). In sostanza, l’industria auto USA beneficerà in casa di un vantaggio competitivo artificiale, ma dovrà affrontare costi maggiori e potenziali perdite di mercati
esteri. Il bilancio netto per i grandi gruppi auto americani è incerto: Stellantis (con Chrysler) e GM hanno molti componenti globali, e potrebbero vedere
ridotta la redditività su alcuni modelli; Tesla potrebbe paradossalmente avvantaggiarsi poiché importa meno (produce in USA) e i concorrenti europei nelle EV diventano più costosi da
importare. Un dato indicativo: secondo stime di Goldman Sachs, i dazi potrebbero ridurre gli utili dell’S&P 500 di circa il 2-3%
usquanta.com
, e gran parte di quell’impatto è legato a settori
manifatturieri come l’auto. Insomma, automotive USA: (+) più vendite domestiche di auto nazionali; (-) input cost più elevati; (-) rischio minori esportazioni e vendite globali;
(+/-) possibili riallocazioni produttive (molti produttori esteri, es. BMW, Toyota, aumenteranno la produzione nei loro impianti USA per evitare dazi, creando concorrenza “locale”
aggiuntiva).
- Elettronica e high-tech: Gli Stati Uniti importano una grande quota di prodotti elettronici di consumo (telefoni, computer, TV) e componenti
(semiconduttori, schede, batterie) dall’Asia (Cina, Taiwan, Corea, Vietnam). Con i nuovi dazi – ad esempio il 34% sui prodotti cinesi e oltre il 30% su alcuni altri asiatici – molti
dispositivi elettronici subiranno forti rincari. Marchi americani come Apple, che producono in Cina, dovranno affrontare costi doganali notevoli per reimportare gli iPhone in patria
(in parte potranno ricorrere alle scorte o spostare produzione verso paesi come India/Vietnam, ma anche questi non sono esenti da tariffe del tutto). Nel breve periodo i consumatori pagheranno di più
elettronica e elettrodomestici, oppure le imprese dovranno assorbire margini più bassi. Dal lato produttivo, alcune aziende potrebbero valutare di assemblare più prodotti in USA: la
recente spinta a costruire fabbriche di semiconduttori sul suolo americano (grazie al CHIPS Act) potrebbe mitigare la dipendenza su certi chip, ma la maggior parte dei componenti (schermi, circuiti
stampati, batterie al litio) non si produce in America in volume significativo. Pertanto, le aziende high-tech USA si trovano con supply chain interrotte o rincarate, riducendo la
loro competitività. Ad esempio, un produttore di apparecchiature di telecomunicazione che importava moduli cinesi ora dovrà pagarli un terzo in più – potenzialmente perdendo contratti se i
concorrenti stranieri (in mercati non colpiti) offrono prezzi migliori. Sul fronte delle esportazioni, la Cina potrebbe reagire limitando l’export verso gli USA di materiali cruciali
(terre rare, componentistica elettronica), aggravando la situazione. D’altro canto, aziende tech straniere (es. Samsung, LG) potrebbero accelerare l’apertura di stabilimenti negli
USA per servire il mercato senza tariffe – il che nel lungo termine potrebbe creare qualche posto di lavoro high-tech domestico (es. fabbriche di elettrodomestici coreane in USA). Il settore
high-tech USA è però tipicamente innovativo e basato su catene globali: i dazi rischiano di rallentarne l’innovazione e ridurne la competitività internazionale, in quanto costi
maggiori e possibili contromisure (la Cina potrebbe boicottare prodotti di tech USA, favorendo competitor locali). In sintesi, per l’elettronica: consumatori pagano di più, aziende
come Apple, HP, Dell vedono margini erosi; possibili benefici per alcune produzioni domestiche di nicchia (es. assemblaggio di componenti militari o sensibili potrebbe aumentare per ragioni
di sicurezza), ma complessivamente sfida notevole per l’elettronica di largo consumo.
- Agricoltura e agroalimentare:
L’agricoltura USA è spesso vittima collaterale delle guerre commerciali, e questo caso non fa
eccezione. I dazi americani del 2 aprile non colpiscono in modo diretto massicci flussi agricoli in entrata (gli USA importano soprattutto cibo tropicale, frutta e vino: beni che potrebbero diventare
più costosi per il consumatore, ma spesso senza alternative domestiche in pari quantità). L’effetto interno diretto potrebbe essere un lieve aumento dei prezzi di alcuni alimenti importati (es.
formaggi europei, olio d’oliva, vini, birra estera in lattina tassata al 25%). Ciò favorirà i produttori alimentari americani in quei segmenti: ad esempio, il vino californiano
diventa relativamente più conveniente rispetto al vino francese tassato, i formaggi Wisconsin più economici del parmigiano importato tassato, ecc. Tuttavia, i benefici per i produttori agricoli
interni da questa dinamica sono limitati, perché molti prodotti importati non hanno sostituti perfetti nazionali (gli americani continueranno a voler parmigiano o champagne, magari pagando di più).
Al contrario, il vero rischio per l’agricoltura USA sta nelle ritorsioni estere. Già nel 2018 l’UE impose dazi ad esempio sul burro d’arachidi e sul succo d’arancia USA, e
soprattutto la Cina sospese l’acquisto di soia dagli Stati Uniti, dirottando verso Brasile e Argentina. Ora, con l’ampiezza del conflitto commerciale, si prevede che Cina,
UE, Messico, Canada e altri colpiranno pesantemente i prodotti agricoli americani: soia, mais, carne bovina e suina, latticini, frutta, ecc. Il Messico, maggiore importatore di mais giallo
USA, potrebbe cercare forniture alternative o imporre dazi di ritorsione, danneggiando gli agricoltori del Midwest. La Cina ha già introdotto tariffe sulle carni suine USA e potrebbe estenderle. L’UE
potrebbe prendere di mira whiskey bourbon, arachidi, riso o altre esportazioni agricole simbolo. Tutto ciò si traduce in minori sbocchi di mercato per gli agricoltori statunitensi,
eccedenze interne e pressioni ribassiste sui prezzi alla produzione agricoli negli USA. Il governo americano potrebbe doversi preparare a sussidi di sostegno (come fece nel 2019 con un pacchetto di
aiuti ai farmer colpiti dalle ritorsioni cinesi). Quindi il settore agricolo USA molto probabilmente perderà più di quanto guadagnerà dalla politica dei dazi: eventuali vantaggi
(leggera protezione sul mercato domestico per alcuni prodotti) sono superati dagli svantaggi sui mercati esteri. Questo è riconosciuto anche politicamente: diversi stati agricoli e
organizzazioni di categoria (es. American Farm Bureau) hanno espresso forte preoccupazione. Non ultimo, l’agroalimentare USA che dipende da input importati (es. mangimi, fertilizzanti, macchinari
agricoli esteri ora più cari) vedrà aumentare i costi di produzione, comprimendo ulteriormente i margini degli agricoltori.
- Settore manifatturiero generale (macchinari, apparecchiature,
beni industriali): Oltre ai settori specifici sopra, la manifattura USA nel suo
complesso subirà un impatto. Da un lato, la protezione di ampi settori può dare respiro ad alcune industrie che competono con import cinese o europeo (es. produttori di macchinari
industriali, pompe, valvole, attrezzature – dove le importazioni cinesi e tedesche erano forti: ora avranno un 20-30% di sovrapprezzo). Questo potrebbe tradursi in qualche commessa in più per
le fabbriche americane di beni strumentali. Dall’altro lato, però, quasi ogni fabbrica USA è anche un utilizzatore di componenti importati: i costi di produzione in settori
come il machinery aumenteranno e la competitività sui mercati esteri calerà. Un costruttore americano di macchinari agricoli, ad esempio, che importa pezzi dall’UE e rivende
globalmente, vede costi salire e possibilità di ritorsioni sui propri prodotti (magari venduti in Europa) – rischiando vendite più basse. Alcuni settori manifatturieri USA strettamente legati
all’export (ad es. macchinari per costruzioni, aerei civili) potrebbero affrontare un calo di domanda estera e dover ridurre la produzione. Ingegneria e manifattura: un rapporto
indicava che le esportazioni italiane di macchinari verso gli USA (15 mld €) sarebbero colpite dai dazi, e aziende con produzione USA come IMA o Sacmi sarebbero avvantaggiate; analogamente, imprese
USA concorrenti potrebbero prendere qualche quota di mercato domestico. Ma globalmente il settore manifatturiero rischia effetti recessivi per via delle barriere: Larry Fink ha
segnalato che “il protezionismo è tornato con forza” e genera “molta ansia per l’economia”, temendo che alla fine a pagare il conto siano anche “pensioni e risparmi, in fumo con
il calo delle borse” legato al rallentamento industriale.
- Energia e materie prime: Questo è un settore meno direttamente toccato dai dazi (che si concentrano su beni manufatti), ma può avere implicazioni. Ad
esempio, se la Cina o altri limitano l’import di GNL o petrolio USA in ritorsione, i produttori americani di energia potrebbero vedere cali di domanda estera. Invece, import di petrolio greggio o
minerali strategici verso gli USA probabilmente non saranno tassati per evitare shock energetici (infatti i dazi sono più su manufatti). Tuttavia, materie prime come i minerali rari
(cobalto, litio, terre rare dalla Cina) potrebbero rientrare in dispute: la Cina minaccia di limitare l’export, causando possibili penurie all’industria americana delle batterie e
difesa.
In conclusione, per i principali settori industriali USA gli effetti
attesi possono essere riassunti come segue:
Settore
|
Effetti previsti
|
Automotive
|
Protetto sul mercato
interno: auto estere +25% di prezzo → più vantaggio competitivo per auto domestiche.
Costi input +: componenti importati (metalli, elettronica) rincarati → aumento costi produzione. Possibili ritorsioni: UE può tassare auto/parti USA.
Netto: vendite interne di Big Three agevolate, ma filiera appesantita da costi e prospettive export negative.
|
Elettronica
|
Costo import +:
smartphone, PC, TV da Cina/Asia +30% prezzo → rischio inflazione tecnologica. Supply chain
interrotta: carenza componenti chiave (se Cina limita export). Produzione interna: qualche assemblaggio può rientrare in USA (fabbriche chip incentivate) ma nel breve
subisce shock. Netto: margini ridotti per tech USA, prezzi consumer più alti, potenziale ritardo innovazione.
|
Agricoltura
|
Mercato interno leggermente
protetto: beni alimentari importati più costosi → lievi vantaggi per vino, latticini, carni
USA. Esportazioni penalizzate: ritorsioni colpiscono soia, mais, carne USA → eccedenze e prezzi agricoli domestici giù. Costi input +: fertilizzanti e macchine
importate più care. Netto: settore agricolo in difficoltà, redditi agricoltori giù, probabili sussidi compensativi.
|
Acciaio &
Alum.
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Produzione interna
su: tariffe 25% mantengono capacità domestica → +1,9% prod. acciaio USA
(2018-21)
msci.org
, posti di lavoro in acciaierie stabilizzati.
Prezzi interni +: acciaio USA +2,4%, alluminio +1,6%
msci.org
→ utenti finali pagano di più. Downstream
-: fabbricanti che usano metalli (es. auto) produzione -0,6%
msci.org
, posti di lavoro persi a valle.
Netto: industria metallurgica USA tutelata; industrie utilizzatrici penalizzate.
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Macchinari &
Manifattura
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Domanda interna
mista: beni strumentali esteri costano di più → alcune commesse passano a produttori USA.
Costo componenti +: elettronica, parti meccaniche importate con dazi → costi produzione ↑, competitività export ↓. Ritorsioni: possibili (es. UE su macchinari USA)
limitano vendite estere. Netto: lieve beneficio per produttori domestici focalizzati su mercato interno; per chi esporta o dipende da input globali, impatto
negativo
msci.org
.
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Hi-Tech &
Servizi
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Big Tech a rischio
indiretto: UE minaccia tassazione servizi digitali USA
ansa.it
come ritorsione → possibile calo utili per aziende
come Google, Amazon in Europa. Settori innovativi: costi maggiori su apparecchiature e talenti globali (clima meno aperto) → potenziale freno a investimenti R&D internazionali
negli USA. Netto: impatto moderato nel breve (dazi colpiscono beni fisici); a medio termine possibile contesto meno favorevole per settori avanzati globalizzati.
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(Fonti: stime Moody’s, Tax Foundation, OCSE,
USITC
msci.org
msci.org
, dichiarazioni UE/USA.)
Come si evince, nessun settore è completamente
immune: quelli protetti ottengono vantaggi circoscritti e affrontano comunque conseguenze sui costi, mentre quelli esposti ai mercati internazionali subiscono soprattutto i contraccolpi
negativi. L’automotive è emblematico di questa ambivalenza: protezione sulle vendite interne ma rischio di aumento costi e perdita di efficienza globale. L’agricoltura rappresenta invece un chiaro
perdente netto date le ritorsioni estere. I settori high-tech e dei servizi vengono toccati indirettamente (dalla reazione altrui e dal clima meno cooperativo).
In prospettiva, alcuni settori potrebbero adattarsi: ad esempio, le
imprese manifatturiere con presenza produttiva all’estero potrebbero rilocalizzare parte della produzione negli USA (per sfruttare il mercato protetto) – questo è già visibile con
aziende europee e asiatiche che potenziano stabilimenti in America. Ciò porterebbe beneficio al settore costruzioni/impiantistica USA nel breve (per nuovi impianti) e qualche assunzione industriale,
ma si tratta di un processo graduale. Nel breve termine prevale lo shock: supply chain sconvolte e ricalibrazione delle strategie.
Implicazioni per la competitività delle imprese americane
(specialmente dipendenti da importazioni)
Un aspetto cruciale è come i dazi incideranno sulla
competitività di lungo periodo delle imprese statunitensi, in particolare quelle che dipendono da materie prime o componenti importati. Le implicazioni possono essere riassunte in
alcuni punti chiave:
- Aumento dei costi di produzione:
Molte aziende USA, per restare competitive, hanno strutturato le loro filiere globalmente, approvvigionandosi di input
dove conviene. Ora quei componenti (dall’acciaio europeo ai microchip taiwanesi) costano dal 10% al 34% in più per via dei dazi. Le “fabbriche americane pagheranno di più per i componenti
prodotti in Europa”, ha avvertito von der Leyen. Questo vale anche per componenti asiatiche o di altri paesi colpiti. Ne risulta una crescita generalizzata dei costi per
l’industria USA. Se l’azienda trasferisce questi costi sui prezzi finali, i suoi prodotti diventano meno competitivi sia in patria (rispetto a eventuali concorrenti esteri non colpiti – anche se la
maggior parte dei concorrenti esteri avrà lo stesso dazio entrando negli USA, salvo dirottare tramite paesi esenti) sia soprattutto all’estero. Ad esempio, un macchinario made in USA diventa più caro
per un compratore europeo non solo per la tariffa UE di ritorsione, ma anche perché contiene pezzi più costosi. Se invece l’azienda assorbe i costi, vedrà erodere i suoi margini e
avrà meno risorse per investire e innovare. Nessuna delle due opzioni è positiva per la competitività di lungo termine.
- Distorsioni e inefficienze nella supply
chain: Le imprese che dipendono da input importati potrebbero provare a cambiare
fornitore per evitare i dazi – ad esempio cercando fornitori domestici o di paesi non soggetti a tariffe elevate. Tuttavia, ciò non è sempre fattibile: o perché non esiste sufficiente
capacità produttiva interna (si pensi a componenti elettroniche avanzate che negli USA non si fabbricano in massa) o perché i paesi “esenti” non hanno filiere equivalenti. Il risultato può essere
dover acquistare a costi più elevati da fornitori sub-ottimali, oppure sostenere costi per riconvertire la produzione in-house di parti prima acquistate (con possibili colli di bottiglia iniziali).
Tutto ciò introduce inefficienze: componenti non più scelti per merito di costo/qualità, ma per considerazioni tariffarie. La competitività internazionale delle imprese USA potrebbe
soffrirne: negli ultimi decenni esse avevano ottimizzato le catene globali per massimizzare efficienza e minimizzare costi; ora vengono “forzate” a scelte meno efficienti, perdendo quel
vantaggio di costo che spesso le aiutava a esportare con successo.
- Perdita di mercati esteri e quote
export: La competitività si esprime non solo in patria ma anche all’estero. Le imprese
americane già affrontano ritorsioni tariffarie sui loro prodotti in molti mercati (come visto, UE, Cina, ecc.). Ad esempio, un produttore americano di motociclette (Harley-Davidson) vede i suoi
motocicli tassati al 50% dall’UE in risposta, rendendoli molto meno appetibili rispetto a marchi giapponesi o europei. Ciò significa perdita di quota di mercato globale per l’azienda
USA, con probabile contrazione della produzione e dei profitti. Se questo scenario si replica su vari settori (aerospaziale, alimentare, moda, macchinari), l’industria statunitense potrebbe perdere
posizioni nella competizione globale a vantaggio di competitor di paesi non coinvolti nella disputa (ad esempio, le aziende giapponesi o sudcoreane potrebbero prendere il posto di quelle americane in
Europa e Cina, sfruttando il conflitto USA vs. resto del mondo). Insomma, le imprese USA rischiano di vedere chiudersi mercati esteri o di doversi installare fisicamente in quei
mercati per servirli (con investimenti non previsti).
- Rischio di diminuzione dell’innovazione e
produttività: Nel lungo termine, la competitività dipende da produttività e innovazione.
Tariffe protettive molto alte possono ridurre la pressione competitiva sul mercato domestico, portando alcune aziende a sentirsi al sicuro e magari meno incentivate a innovare o
efficientare (il cosiddetto rischio di “complacency” da protezione). Anche se l’obiettivo è rafforzarle, c’è il pericolo di creare “campioni nazionali” poco dinamici, che poi fuori
dal mercato protetto faticano. D’altro canto, l’aumento dei costi delle attrezzature importate può frenare il rinnovamento tecnologico: se macchinari avanzati europei o robot giapponesi costano molto
di più per via dei dazi, un’azienda americana potrebbe rinviare gli investimenti in nuovo capitale produttivo, accontentandosi di equipaggiamenti meno efficienti. Ciò nel tempo erode
la produttività. Inoltre, talenti e collaborazioni internazionali potrebbero risentirne: un clima di guerra commerciale non favorisce gli scambi di idee e persone, e aziende globali
potrebbero scegliere di investire meno in centri di ricerca USA se vedono barriere nell’interscambio.
- Caso delle PMI importatrici:
Molte piccole e medie imprese americane basano il loro business sull’importare prodotti finiti o semilavorati a basso
costo per rivenderli o utilizzarli. Queste PMI hanno margini ridotti e poca capacità di negoziare sconti dai fornitori esteri: i dazi del 10-20-30% possono essere devastanti per la loro
competitività. Alcune saranno costrette a rialzare i listini, perdendo clientela a favore di produttori nazionali integrati verticalmente (se esistenti) o semplicemente vendendo meno. In
definitiva, potremmo assistere a fallimenti o consolidamenti di PMI che non reggono l’aumento dei costi, con impatto negativo sul tessuto concorrenziale.
- Vantaggi competitivi per alcune
imprese: Non tutti gli effetti sono negativi. Alcune imprese americane non dipendenti
da import, o che già producevano principalmente in patria con materie prime nazionali, ora godono di un mercato domestico più protetto e possono espandersi. Ad esempio, aziende
nell’arredamento di design che producono negli USA potranno conquistare clienti che ora evitano mobili italiani tassati. L’industria siderurgica USA, ridotta ma presente, ha un
vantaggio sui concorrenti esteri e può investire in nuova capacità (se crede che i dazi resteranno a lungo). In questi segmenti, la competitività interna migliora perché la concorrenza estera è
artificialmente limitata. Tuttavia, il rischio è che tali aziende si concentrino sul mercato interno protetto e perdano l’attitudine a competere fuori, diventando “campioni domestici” ma
irrilevanti globalmente.
In termini di competitività generale del “Sistema America”, gli
economisti temono che i dazi su vasta scala possano ridurre la crescita potenziale. Il Tax Foundation stima quel -0,2% annuo di PIL potenziale, che accumulato significa una
traiettoria di economia più piccola di quanto sarebbe senza barriere, quindi meno opportunità per le imprese. Anche Goldman Sachs ha ridotto la previsione di crescita USA 2025 all’1,7% (dal 2,2%)
proprio a causa di queste politiche
morningstar.it
. Questo suggerisce che la competitività, lungi dal
venir galvanizzata, potrebbe soffrirne.
Da ultimo, va menzionato l’incubo burocratico
paventato: von der Leyen ha detto che i dazi creeranno “un mostro burocratico di nuove procedure doganali” e “un incubo per tutti gli importatori statunitensi”. La gestione delle
esenzioni, delle quote, delle contro-tariffe aggiungerà complessità amministrativa per le imprese USA, specialmente quelle medio-piccole che non hanno reparti dedicati al trade
compliance. Ciò è un altro fattore che riduce l’agilità e la competitività rispetto a concorrenti di paesi dove il commercio resta più libero.
In sintesi, le imprese americane che si approvvigionano dall’estero vedranno erosione della loro competitività di costo,
dovranno riorganizzare supply chain con possibili inefficienze, e potrebbero perdere terreno sui mercati internazionali a favore di concorrenti stranieri. Mentre nel breve alcune industrie guadagnano
protezione, nel medio-lungo termine c’è il rischio concreto di un arretramento competitivo complessivo del settore produttivo USA nel contesto globale. Naturalmente, molto dipenderà
dalla durata dei dazi: se saranno temporanei e volti a ottenere concessioni, l’impatto strutturale potrebbe essere limitato; se diventeranno il “nuovo normale”, le aziende USA
dovranno adattarsi permanentemente a un mondo di alti muri tariffari, con le conseguenze sopra descritte.
Conclusione: I dazi del 2 aprile 2025 rappresentano un cambiamento di paradigma per la politica commerciale USA. Basandosi sui parametri
economici e sulle valutazioni di numerose fonti affidabili, emerge un quadro nel quale: i settori protetti ottengono vantaggi immediati limitati, mentre l’economia nel suo complesso affronta
costi in termini di prezzi, efficienza e rapporti internazionali. Le motivazioni ufficiali di riequilibrio e tutela industriale si scontrano con il rischio di “danni collaterali”
significativi: un’inflazione più alta, posti di lavoro netti persi, ritorsioni che deprimono l’export, catene del valore stravolte e un’erosione della fiducia reciproca nel sistema commerciale
globale. Come notato da un’analisi, “i dazi fanno male a tutti”
rainews.it
: l’auspicio degli osservatori neutrali (FMI, OCSE,
WTO) è che si possa tornare al dialogo per scongiurare gli scenari peggiori. Nel frattempo, imprese e consumatori dovranno navigare in un contesto più incerto e costoso, adattandosi a questa nuova
realtà protezionista. Le prossime mosse – negoziati bilaterali, eventuali accordi esentativi o escalation di contromisure – determineranno se l’impatto descritto sarà attenuato o accentuato nel
futuro prossimo.