rivista di opinione, ricerca e studi filosofici
rivista di opinione, ricerca e studi filosofici

Trump scatena la tempesta dei dazi, qual è la strategia dietro l'offensiva tariffaria degli USA e cosa ne pensa l’AI?

Analisi approfondita delle ragioni economiche e politiche dietro la controversa scelta del presidente Trump di imporre forti dazi commerciali, ma non è la decisione di un uomo solo al comando. Secondo la deep research di ChatGPT c’è il rischio di una pesante recessione globale

di Francesco Pungitore

 

[3 aprile 2025] Gli Stati Uniti hanno avviato un’aggressiva politica tariffaria, annunciata con enfasi da Donald Trump come "uno dei giorni più importanti della storia americana". Questa misura, considerata drastica e sorprendente anche dagli esperti, impone un dazio minimo del 10% su quasi tutto l'import americano, con tariffe ulteriormente aumentate per circa 60 Paesi definiti "sleali" nelle relazioni commerciali con gli USA. Tra questi, l’Unione Europea sarà colpita con tariffe del 20%, mentre la Cina subirà un incremento ulteriore del 34%, raggiungendo complessivamente un pesante 54%. Significativa anche la tassazione sul settore automobilistico straniero, fissata al 25%.

La strategia e gli obiettivi USA

Quali sono le motivazioni che spingono Trump verso questa strategia commerciale aggressiva? Una risposta può essere trovata analizzando attentamente il delicato contesto statunitense. Sarebbe un errore ridurre la vicenda a una semplice decisione di un uomo solo al comando. In realtà, Trump sta rispondendo a precise logiche di interesse politico ed economico radicate nella società americana, che mirano a riequilibrare i rapporti commerciali internazionali considerati sfavorevoli dagli Stati Uniti. Una risposta più completa può essere trovata analizzando attentamente il delicato contesto economico degli States. La superpotenza deve affrontare una realtà complessa caratterizzata da un debito federale record di 36 trilioni di dollari, che secondo le stime crescerà ulteriormente fino a 38 trilioni entro il 2025, alimentato da un deficit annuale di circa 2 trilioni di dollari. In tale contesto, Trump sta puntando su una strategia articolata in tre principali leve economiche per invertire questa tendenza negativa.

In primo luogo, il presidente statunitense intende effettuare drastici tagli alla spesa pubblica, risparmiando almeno 1 trilione di dollari. Questi tagli mirano principalmente agli sprechi evidenti e ai casi di frode, come pagamenti indebiti della previdenza sociale a persone ormai decedute o inesistenti. Per garantire l'efficacia di questa operazione, Trump ha affidato a Elon Musk il ruolo di capo del Department of Government Efficiency (Doge), un incarico specifico per identificare e ridurre gli sprechi nella spesa pubblica federale. In secondo luogo, l'obiettivo dichiarato è quello di aumentare le entrate di almeno 1-2 trilioni di dollari attraverso una sostanziale espansione delle tariffe doganali, elevandole dagli attuali 50 miliardi a circa 500 miliardi di dollari annui. Trump è convinto che gli altri Paesi non avranno modo di contrattaccare efficacemente, considerando che gli Stati Uniti rappresentano il maggior cliente globale, importando beni per oltre 3 trilioni di dollari l’anno.

Trump difende questa strategia anche in nome dell'equità commerciale, sottolineando che l'attuale sistema di tariffe non è giusto: ad esempio, evidenzia come le automobili americane debbano pagare tariffe del 10% per entrare nel mercato europeo, mentre le vetture europee pagano soltanto il 2,5% per entrare negli Stati Uniti. Una disparità che Trump considera inaccettabile e che punta a correggere. Il suo scopo è chiaro: incentivare la produzione interna, creare nuovi posti di lavoro stabili negli USA, incrementare il gettito fiscale e attirare più investimenti stranieri sul suolo americano.

Il terzo pilastro della strategia economica riguarda una promessa di riduzione significativa delle tasse, che potrebbe realizzarsi solo se gli Stati Uniti riusciranno a raggiungere un surplus grazie alle due precedenti misure. Trump ha annunciato che in caso di surplus fiscale eliminerà completamente le tasse per i redditi superiori a 150.000 dollari, mentre le imposte sulle società saranno abbassate dall’attuale 21% al 15%. Un livello estremamente competitivo rispetto alla media europea, che si aggira attorno al 22%, con Paesi come Germania e Francia che applicano aliquote ancora più elevate. Questo farebbe degli USA una delle destinazioni imprenditoriali più ambite al mondo.

 

Le reazioni e il “caso” Italia

Tuttavia, questa politica aggressiva non è priva di conseguenze negative immediate. Wall Street ha già risposto con una forte volatilità e pesanti perdite: il Nasdaq ha registrato una diminuzione del 4,5%, Apple ha perso il 7%, mentre Amazon e Tesla hanno subito contrazioni superiori al 6%.

Sul fronte internazionale, le reazioni non si sono fatte attendere e sono improntate a una forte preoccupazione. In Italia, in particolare, Confindustria Accessori Moda ha segnalato il rischio concreto di una significativa contrazione delle esportazioni Made in Italy negli USA. Anche Federvini e il Consorzio Parmigiano Reggiano hanno espresso forti timori per le conseguenze negative sulla competitività delle imprese agroalimentari italiane e per i danni potenziali all'interscambio commerciale transatlantico. Cristina Scocchia, amministratrice delegata di Illy Caffè, sta valutando di trasferire direttamente negli Stati Uniti la produzione destinata al mercato americano, proprio per evitare i pesanti dazi imposti da Trump. Ricordiamo che l’agroalimentare italiano esportato negli USA vale complessivamente 7,8 miliardi di euro. Il mercato americano è particolarmente significativo per il nostro vino italiano, con esportazioni pari a circa 2 miliardi di euro, ovvero il 25% del totale export vinicolo nazionale (8,1 miliardi). In questo settore, l’Italia rischia una riduzione delle esportazioni del 16%, situazione che appare più grave rispetto ad altri produttori europei come Francia e Spagna. Letizia Cesani, presidente di Coldiretti Toscana, ha sottolineato che molti posti di lavoro sono in pericolo: ad esempio, il 35% della produzione del Chianti Classico è destinato agli Stati Uniti. Anche il settore della moda toscana risulta altamente vulnerabile, con dazi tra il 10% e il 20% che potrebbero far salire di 14-24 miliardi di dollari il costo dell'abbigliamento e di 6,4-10,7 miliardi di dollari quello delle calzature per i consumatori americani. Claudia Sequi, presidente di Assopellettieri, ha dichiarato che tutte le aziende, dalle più piccole ai grandi marchi, sono esposte al rischio. Per un'altra regione come l'Abruzzo gli USA rappresentano il primo mercato d’esportazione con il 17% del totale, pari a 1,6 miliardi di euro, principalmente nei settori vinicolo, agroalimentare, farmaceutico e meccanico, settori che nel 2024 hanno visto una crescita eccezionale del 160% rispetto al 2023. Ma ora, cosa accadrà?

 

Ripercussioni pesanti

In definitiva, la strategia di Trump appare coerente con le sue promesse di rilanciare l'economia americana attraverso il ritorno della produzione sul suolo nazionale e la riduzione del debito pubblico. Dall’altro lato, rischia concretamente di scatenare una vera e propria guerra commerciale globale. Gli effetti potrebbero rivelarsi negativi non solo per le economie colpite dai nuovi dazi, ma paradossalmente anche per gli stessi Stati Uniti, che potrebbero subire pesanti ripercussioni, soprattutto, in termini di stabilità finanziaria internazionale.

 

Una deep research con l’AI

Rapporto di analisi: “I dazi USA del 2 aprile 2025 e le loro implicazioni economiche” – Realizzato con ChatGPT deep research

Ecco una sintesi in 5 punti essenziali del report sui nuovi dazi USA annunciati il 2 aprile 2025:

  1. Settori colpiti dai dazi

I dazi USA del 2025 colpiscono soprattutto il settore automotive (25% su auto importate), i metalli (acciaio, alluminio, lattine), e un’ampia gamma di beni manifatturieri e di consumo a seconda del paese di origine. Anche l’agroalimentare è coinvolto indirettamente, tramite ritorsioni previste da altri paesi.

  1. Motivazioni ufficiali

L’amministrazione USA giustifica i dazi con cinque argomenti principali:

  • Correzione di squilibri commerciali e barriere “sleali”
  • Protezione dell’industria e dell’occupazione nazionale
  • Sicurezza economica e strategica
  • Aumento delle entrate fiscali
  • Successo percepito delle misure simili introdotte nel 2018
  1. Effetti su inflazione e prezzi al consumo

I dazi agiscono come tasse indirette, facendo aumentare i prezzi dei beni importati. Analisi storiche mostrano che il rincaro dei prezzi è quasi proporzionale al dazio imposto. Si teme quindi un ritorno dell’inflazione, con particolare impatto su beni come auto, elettronica, cibo e farmaci.

  1. Impatto sull’occupazione

Gli effetti sono misti: benefici occupazionali attesi in settori protetti (es. acciaio, auto), ma perdite previste nei settori a valle (componentistica, esportazioni) e tra le PMI. Il saldo netto potrebbe essere negativo, con stime di 140.000–300.000 posti persi nel medio termine.

  1. Reazioni internazionali e rischi globali

Le reazioni dei partner commerciali (UE, Cina, Messico, Canada) includono minacce di ritorsioni, ricorsi al WTO, e misure contro prodotti simbolo USA. A livello globale si temono:

  • Rallentamento del commercio mondiale
  • Frammentazione delle catene globali del valore
  • Rischi di recessione
  • Erosione delle regole multilaterali del commercio

 

Prodotti e settori coinvolti dai nuovi dazi

Il 2 aprile 2025 gli Stati Uniti hanno annunciato una serie di dazi aggiuntivi su un ampio ventaglio di prodotti e settori. In particolare:

  • Automobili e settore automotive: è stata imposta un’aliquota del 25% su tutte le automobili prodotte all’estero e importate negli USA. Questo colpisce sia le vetture europee, giapponesi e coreane, sia le auto assemblate in Messico o Canada destinate al mercato americano. Contestualmente, i costruttori americani hanno cercato di ottenere eccezioni sui componenti auto importati, dati i forti legami delle supply chain globali (riunioni tra Ford, GM, Stellantis e Casa Bianca sono state segnalate per limitare l’impatto su parti e componentistica).
  • Alluminio e prodotti correlati: già dal 4 aprile scattano dazi del 25% su tutte le lattine di birra importate e sulle lattine vuote in alluminio. Queste misure “antipasto” si aggiungono ai dazi del 25% su acciaio e alluminio introdotti in precedenza (Sezione 232), ancora in vigore. Il settore delle materie prime metalliche rimane dunque altamente protetto, colpendo prodotti come laminati, barattoli, componenti industriali in acciaio e alluminio.
  • Prodotti manifatturieri generici per Paese di origine: l’amministrazione ha adottato un approccio di “reciprocità” tariffaria verso i partner commerciali. In pratica, vengono applicati dazi aggiuntivi sulle importazioni commisurati alle barriere che quei paesi impongono ai beni americani. Il risultato è un ventaglio di aliquote differenziate per paese: ad esempio 20% sui beni provenienti dall’Unione Europea, 10% sul Regno Unito, 34% sulla Cina, 46% sul Vietnam, 32% su Taiwan, 10% sul Brasile, 30% sul Sudafrica, 31% sulla Svizzera, 49% sulla Cambogia, 24% sul Giappone e 26% sull’India. In pratica, quasi tutti i paesi esportatori verso gli USA sono colpiti – senza eccezioni significative – con tariffe addizionali su ampia gamma di beni (dai macchinari ai beni di consumo), come confermato dalla Casa Bianca (“i dazi riguarderanno tutti i Paesi”).
  • Settore agroalimentare: sebbene i dazi USA si concentrino maggiormente su prodotti industriali, anche l’agroalimentare risulta indirettamente coinvolto. Ad esempio, l’Unione Europea ha preannunciato che, in ritorsione ai dazi USA su acciaio/alluminio e altri beni, aggiungerà da metà aprile dazi su prodotti agricoli come gomme da masticare, pollame, semi di soia e altri beni agroalimentari. Sul fronte USA, possibili tariffe su vini e formaggi europei erano state ipotizzate nelle discussioni preliminari, anche se l’annuncio del 2 aprile si è focalizzato soprattutto su automobili e prodotti industriali. In ogni caso, i beni alimentari importati (dai latticini europei alla frutta esotica) potrebbero risentire di aumenti di prezzo a causa delle tariffe generalizzate per paese di provenienza.

In sintesi, i nuovi dazi USA colpiscono principalmente il settore automotive e i beni industriali/manifatturieri (acciaio, alluminio, macchinari, elettronica, ecc.) provenienti da praticamente tutti i partner commerciali principali. Prodotti di largo consumo confezionati in materiali d’alluminio (bevande) rientrano anch’essi nelle misure. L’impatto settoriale è dunque molto ampio, spaziando dall’industria pesante all’elettronica di consumo, con particolare enfasi su comparti come auto, metalli e meccanica. L’elenco seguente riassume alcuni esempi di beni e settori toccati:

  • Automotive: automobili complete, componenti (indirettamente) – Dazio 25% sulle vetture estere.
  • Metalli (Acciaio/Alluminio): semilavorati, lattine, prodotti finiti in metallo – Dazio 25% (continuazione Sezione 232).
  • Macchinari e manufatti UE/Cina: macchine utensili, elettronica, apparecchiature varie – Dazi ~20-34% a seconda del paese.
  • Beni di consumo importati: ad esempio elettrodomestici, articoli casalinghi, beni alimentari confezionati – colpiti dalle tariffe generalizzate per origine geografica (EU, Asia, ecc.).
  • Agroalimentare: prodotti agricoli e alimentari importati (formaggi, vini, carni) – potenzialmente soggetti a rincari se provenienti da paesi colpiti; inoltre possibili coinvolgimenti in successive ritorsioni straniere (soia, whisky, ecc.).

Motivazioni ufficiali dietro l’introduzione dei dazi

Le ragioni ufficiali addotte dal governo statunitense per giustificare questi nuovi dazi sono di natura correttiva e strategica, richiamando temi di equità commerciale, protezione industriale e interesse nazionale. Di seguito le principali motivazioni dichiarate:

  • Correggere pratiche commerciali “sleali” e squilibri: La Casa Bianca sostiene che per decenni gli Stati Uniti siano stati “derubati” o “saccheggiati” da politiche commerciali scorrette di altri Paesi. Il presidente Trump ha denunciato barriere tariffarie estere molto più alte di quelle statunitensi (ad esempio: dazio USA del 2,5% sulle auto contro oltre il 10% dell’UE, con IVA al 20% in Europa). In settori come motociclette, l’India applica tariffe fino al 70% e il Vietnam 75%, rispetto a dazi minimi degli USA. L’introduzione di dazi reciproci mira dunque a “riequilibrare” la situazione tariffaria per avvicinarsi alla reciprocità: ogni paese dovrà affrontare tariffe pari a circa la metà di quelle che – secondo Washington – esso stesso impone ai prodotti americani. Questo approccio è presentato come un modo per costringere i partner a negoziare barriere più basse su entrambi i fronti.
  • Rilanciare l’industria e l’occupazione americana: Trump ha descritto il 2 aprile 2025 come “il giorno in cui l’industria americana è rinata”, proclamando un nuovo “Liberation Day” economico. L’obiettivo dichiarato è proteggere le industrie nazionali dalla concorrenza estera considerata sleale, in modo da riportare produzione e posti di lavoro negli Stati Uniti. La Casa Bianca afferma in una nota ufficiale che “i dazi funzionano, e il primo mandato di Trump lo dimostra”, citando studi secondo cui le tariffe introdotte dal 2018 hanno ridotto le importazioni cinesi e “stimolato una maggiore produzione statunitense”. In particolare, un rapporto della Commissione Internazionale per il Commercio (ITC) del 2023 avrebbe rilevato effetti positivi sulla produzione interna con “effetti molto minori sui prezzi a valle”. L’idea è che proteggendo il mercato interno, le fabbriche americane possano espandere la produzione per sostituire le importazioni, creando posti di lavoro manifatturieri ben retribuiti.
  • Sicurezza economica e nazionale: sebbene non enfatizzato pubblicamente quanto in passato, l’amministrazione richiama implicitamente motivi di sicurezza nazionale ed economica. Prodotti come acciaio e alluminio erano già stati tariffati nel 2018 per ragioni di sicurezza strategica; ora, l’ampia gamma di dazi viene giustificata anche per ridurre dipendenze critiche dall’estero (specie da paesi considerati rivali come la Cina) e tutelare filiere nazionali essenziali. In un contesto globale instabile (post-pandemia e tensioni geopolitiche), ricostruire la capacità produttiva interna è presentato come un baluardo per l’economia nazionale.
  • Aumentare entrate fiscali e ridurre i deficit: Un altro argomento esplicito è il beneficio finanziario per lo Stato. Peter Navarro, consigliere della Casa Bianca, ha stimato che “le nuove tariffe porteranno nelle casse pubbliche 600 miliardi di dollari all’anno” di gettito. Questa cifra, che include circa 100 miliardi derivanti dai dazi sulle auto importate, verrebbe utilizzata per ridurre il debito pubblico e il disavanzo commerciale. In altre parole, tassare le importazioni dovrebbe sia diminuire le importazioni stesse (riducendo il deficit commerciale), sia fornire un flusso di entrate fiscali per finanziare programmi interni o contenere il debito. L’amministrazione sostiene che una tariffa fissa (ipotizzata al 20%) su tutte le importazioni potrebbe garantire oltre 6 trilioni di dollari di entrate aggiuntive nel lungo periodo.
  • Precedente del primo mandato e studi favorevoli: Per avvalorare la bontà dei dazi, la Casa Bianca cita studi di think tank che dipingono un impatto gestibile. Ad esempio, l’Economic Policy Institute (EPI) – think tank focalizzato sul lavoro – viene menzionato per aver rilevato che i dazi del 2018 “non hanno mostrato chiaramente alcuna correlazione con l’inflazione” (smontando l’argomento che i dazi alimentino necessariamente il caro-vita). Inoltre, un’analisi dell’Atlantic Council viene usata per suggerire che “le tariffe creerebbero nuovi incentivi per i consumatori statunitensi ad acquistare prodotti made in USA”, favorendo quindi l’economia interna. Queste citazioni selettive indicano la volontà del governo di fornire una base intellettuale alle misure protezionistiche, presentandole non come mosse isolazioniste ideologiche ma come politiche con fondamento analitico a supporto (sebbene molti economisti esterni siano in disaccordo, come vedremo oltre).

In sintesi, ufficialmente Washington giustifica i dazi come strumento necessario per ristabilire condizioni di commercio equo, rafforzare l’industria nazionale e tutelare l’economia americana a lungo termine, anche a costo di tensioni a breve termine. La retorica presidenziale sottolinea il concetto di “reciprocità” e “liberazione” dall’ordine commerciale precedente, ritenuto penalizzante per gli Stati Uniti. Importante notare che vengono negati secondi fini politici: la Casa Bianca respinge le critiche secondo cui i dazi siano mosse populiste o nazionaliste, insistendo invece sul loro presunto rigore analitico e efficacia pratica (citando dati di entrate e studi favorevoli). Tuttavia, come vedremo, le analisi indipendenti forniscono valutazioni più cautelative sugli impatti reali di tali misure.

Effetti a breve termine sull’inflazione e sui prezzi al consumo

Una delle prime conseguenze attese dei nuovi dazi è un aumento dei prezzi interni negli Stati Uniti, con potenziali pressioni al rialzo sull’inflazione. I dazi sulle importazioni si comportano infatti come una tassa indiretta sui consumatori: il costo aggiuntivo tende a essere trasferito nel prezzo finale dei beni importati. Fonti ufficiali europee hanno subito messo in guardia gli USA su questo punto: la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha avvertito che “per gli americani, i dazi sono tasse sul cibo e sui medicinali” e che faranno “tornare a correre l’inflazione” negli Stati Uniti. Questo perché molte merci di consumo quotidiano – dagli alimentari ai farmaci, dall’abbigliamento all’elettronica – diverranno più costose per via delle tariffe aggiuntive.

Le dinamiche di traslazione dei dazi nei prezzi al consumo sono confermate dai dati storici. Un rapporto della Commissione Internazionale sul Commercio (USITC) ha rilevato che, nel periodo 2018-2021, gli importatori USA hanno assorbito quasi per intero il costo dei dazi: “i prezzi all’importazione sono aumentati in misura quasi identica alle tariffe” imposte​

msci.org

. In particolare, per ogni +1% di dazio, i prezzi import sono saliti di circa +1%, segno di un pass-through quasi completo​

msci.org

. Ciò significa che le imprese che importano beni dall’estero hanno scaricato gli extra-costi direttamente sui compratori a valle, siano essi aziende utilizzatrici o consumatori finali. Ad esempio, i dazi su acciaio introdotti nel 2018 hanno fatto aumentare i prezzi interni dell’acciaio del 2,4% (a fronte di una tariffa del 25% applicata) e quelli sull’alluminio dell’1,6%, generando rincari analoghi nei prodotti finiti contenenti tali metalli​

msci.org

. I settori a valle che usano acciaio/alluminio hanno visto i propri costi salire e hanno dovuto alzare i prezzi output in media dello 0,2%​

msci.org

.

Sul piano macroeconomico, l’effetto inflazionistico dei nuovi dazi USA potrebbe essere significativo nel breve periodo. Stime e opinioni da fonti autorevoli indicano quanto segue:

  • L’UE prevede un ritorno dell’inflazione USA su ritmi sostenuti, dopo che a marzo 2025 era in calo al 2,2% annuo. L’aggiunta di nuove “tasse” sulle importazioni rischia di vanificare i progressi nel contenimento dei prezzi. Von der Leyen ha esplicitamente dichiarato che tali dazi “faranno correre l’inflazione” negli Stati Uniti, rendendo più difficile il lavoro della Federal Reserve nel mantenere la stabilità dei prezzi.
  • Analisti finanziari e investitori condividono questi timori. Morningstar nota che tariffe più alte tendono ad aumentare l’inflazione, complicando le mosse delle banche centrali e alimentando incertezza nei mercati​

morningstar.it

. L’aumento dei costi di importazione agisce infatti come uno shock inflazionistico dell’offerta: prezzi in salita senza un corrispettivo aumento di produttività. Questo scenario obbligherebbe eventualmente la Fed a una politica monetaria più restrittiva di quanto altrimenti necessario, con il rischio di raffreddare ulteriormente l’economia.

  • Esempi concreti di rincari al consumo: beni importati come automobili straniere, elettronica di consumo (TV, smartphone), abbigliamento e alimentari esotici subiranno aumenti. Un’analisi spiega il meccanismo con un esempio alimentare: se gli USA introducono un dazio (es.) di 1 dollaro per ogni kg di formaggio importato, l’importatore americano pagherà quel dollaro in dogana e “aumenterà di un dollaro il prezzo” al dettaglio per recuperare il costo. In definitiva, “chi paga, alla fine, è il consumatore statunitense”. Questo processo diffuso “porta innanzitutto all’aumento dell’inflazione” interna. Proprio tali ragioni rendono i dazi una misura potenzialmente controproducente in fasi in cui l’inflazione è già oggetto di attenzione.

Va notato che il governo USA minimizza questo rischio, citando come detto l’EPI, secondo cui i dazi precedenti non avrebbero mostrato correlazione chiara con l’inflazione. In realtà, molti economisti ritengono che l’assenza di forte inflazione nel 2018-2019 con i dazi Trump dipese da altri fattori (es. rallentamento economico globale, politiche monetarie) e che i dazi comunque abbiano modesto contributo al rialzo dei prezzi. Ora, però, con tariffe ben più estese, l’impatto potrebbe essere più marcato.

In sintesi, nel breve termine è lecito attendersi un incremento dei prezzi al consumo negli USA, specialmente per quei prodotti importati colpiti direttamente dalle nuove tariffe. L’effetto sul tasso d’inflazione potrebbe manifestarsi nei trimestri successivi all’introduzione: alcuni osservatori prospettano alcuni decimi di punto percentuale aggiuntivi di inflazione core nel 2025. Questa tendenza, se confermata, eroderebbe il potere d’acquisto delle famiglie americane, vanificando in parte i benefici di eventuali incrementi salariali, e porrebbe dilemmi alla politica monetaria (costretta a scegliere se contrastare l’inflazione da costi o supportare la crescita in rallentamento). Non a caso Larry Fink (CEO di BlackRock) ha avvertito che il conto finale dei dazi rischia di essere pagato “dagli americani in termini di caro-prezzi”, con conseguenze anche sui risparmi e i mercati finanziari.

Impatto sull’occupazione interna negli Stati Uniti (benefici e perdite attese)

Sul fronte dell’occupazione nazionale, i dazi producono effetti contrastanti: favoriscono alcuni settori protetti, dove possono salvaguardare o creare posti di lavoro, ma ne penalizzano altri (settori a valle o esportatori) dove si possono perdere impieghi a causa di costi più alti o ritorsioni estere. Un’analisi equilibrata deve dunque considerare sia i potenziali benefici occupazionali in determinati comparti, sia le perdite attese altrove, valutando il saldo netto sull’economia americana.

Benefici occupazionali attesi nei settori protetti: Le tariffe dovrebbero stimolare la domanda di prodotti nazionali in sostituzione delle importazioni, portando le aziende americane ad aumentare la produzione e l’occupazione. Esempi:

  • Nel settore dell’acciaio e alluminio, i dazi precedenti (25%) hanno contribuito a una crescita della produzione interna: nel 2021 la produzione USA di acciaio era di 1,3 miliardi di $ più alta rispetto a quanto sarebbe stata senza dazi​

msci.org

, con un aumento del +1,9% della produzione di acciaio negli USA dovuto alle tariffe​

msci.org

. Analogamente, la produzione di alluminio è salita del +3,6% (pari a +0,9 miliardi $) grazie ai dazi​

msci.org

. Questa maggiore attività industriale ha sostenuto migliaia di posti di lavoro nelle acciaierie e fonderie domestiche. Stime indicano che le tariffe su acciaio/alluminio varate nel 2018 hanno direttamente supportato circa 30 mila posti di lavoro in quei settori di base. Nel 2025, con tariffe estese ad altri comparti (es. automotive), ci si aspetta un effetto simile: assunzioni o mantenimento di posti in stabilimenti automobilistici, siderurgici, impianti di componentistica e altre fabbriche che servono il mercato interno, ora più protetto.

  • Nel settore automotive, l’imposizione del 25% sulle auto straniere incentiverà l’acquisto di auto prodotte domesticamente. Case automobilistiche americane (Ford, GM, Stellantis) potrebbero aumentare la produzione nazionale per soddisfare la domanda lasciata scoperta dalle importazioni più costose. Già solo evitare la concorrenza di vetture europee e asiatiche dovrebbe preservare occupazione negli impianti USA. L’amministrazione stima introiti di 100 miliardi $/anno dai dazi auto, segno di un vasto volume di vendite tassate che – nelle intenzioni – dovrebbe tradursi in vendite aggiuntive per le auto “made in USA”. In tal senso, nel breve termine alcuni incrementi occupazionali sono attesi presso gli stabilimenti automobilistici americani e nella loro filiera locale (fornitori di parti, acciaierie automotive, ecc.), sebbene in parte mitigati dalla carenza di componenti importati a basso costo.
  • Anche altri comparti manifatturieri (dall’elettronica all’arredo) potrebbero vedere modeste crescite occupazionali dovute al fenomeno di “reshoring” forzato: taluni prodotti che conveniva importare potrebbero venir realizzati in patria. Ad esempio, l’Atlantic Council sostiene che le tariffe creano “nuovi incentivi per i consumatori statunitensi ad acquistare prodotti made in USA”, il che incoraggia le imprese ad espandere la capacità produttiva nazionale, potenzialmente generando nuovi posti di lavoro nel lungo termine.

Perdite occupazionali attese nei settori colpiti (e saldo netto): D’altro canto, numerosi economisti prevedono che il saldo complessivo sull’occupazione USA sarà negativo, poiché le perdite di posti di lavoro nei settori penalizzati supereranno i guadagni nei settori protetti. Le ragioni principali sono: costi maggiori per i produttori a valle, calo delle esportazioni USA per ritorsioni, e aumento generale dei prezzi che deprime la domanda. Vediamo alcune analisi chiave:

  • La Federal Reserve di Richmond ha stimato gli effetti combinati dei dazi del 2018-2019, trovando che essi hanno comportato una riduzione netta dell’occupazione negli Stati Uniti. In particolare, si calcola che quei dazi abbiano causato la perdita di circa 220.000 posti di lavoro nei settori fortemente dipendenti da input importati (a causa dell’aumento dei costi di produzione) e, includendo l’effetto delle ritorsioni cinesi sulle esportazioni USA, la contrazione occupazionale sale a ~320.000 posti. Questo rappresenta circa il 2,6% dell’occupazione manifatturiera USA. In sintesi, lo studio conclude che gli effetti economici dei dazi 2018-19 – “pur beneficiando un insieme limitato di industrie domestiche” – hanno prodotto “un risultato netto negativo” per l’economia americana. Proiettando tali risultati sul nuovo round di dazi 2025 (ancora più ampio), diversi economisti paventano perdite occupazionali ben maggiori, potenzialmente nell’ordine di alcune centinaia di migliaia di posti nei prossimi anni, dovute a chiusure di imprese meno competitive e calo delle vendite all’estero.
  • Il Tax Foundation, think tank di orientamento fiscale, ha simulato gli effetti di lungo periodo dei dazi: i dazi imposti nel 2017-2018 hanno ridotto il PIL potenziale USA di 0,2 punti percentuali e “una politica simile – se non più aggressiva – porterà a una perdita di 142 mila potenziali occupati nei prossimi anni”. Dunque circa 142.000 americani in meno avrebbero un impiego rispetto allo scenario senza dazi, nel medio-lungo termine. Questa stima, focalizzata sul potenziale di crescita, suggerisce che i dazi attuali potrebbero frenare l’espansione dell’occupazione su base pluriennale, con effetti persistenti ben oltre il breve periodo.
  • I settori a valle (imprese che utilizzano componenti importate) rischiano licenziamenti e tagli. Il già citato rapporto USITC evidenzia che a causa dei maggiori prezzi delle materie prime protette, la produzione dei settori downstream nel 2021 era inferiore di 3,5 miliardi $ rispetto allo scenario senza dazi​

msci.org

. Ciò implica minori vendite e, presumibilmente, meno occupati in quei comparti (ad esempio aziende metalmeccaniche che hanno dovuto ridurre la produzione per l’aumento del costo dell’acciaio). Con l’estensione dei dazi nel 2025, settori come l’automotive (sul lato componenti e assemblaggio di modelli che dipendevano da parti estere), l’aerospaziale, l’elettronica e il machinery potrebbero dover ridimensionare i propri organici per far fronte all’aumento dei costi e alla possibile contrazione dei margini/produttività.

  • Le ritorsioni commerciali da parte dei partner (trattate più avanti) colpiranno a loro volta le industrie esportatrici americane, come l’agricoltura, l’aeronautica, la tecnologia. Dazi di ritorsione sui prodotti USA ridurranno la competitività di questi ultimi all’estero, portando a cali di ordini e potenzialmente a esuberi di personale in aziende orientate all’export. Il Fondo Monetario Internazionale ha già avvertito che, se mantenute, le tariffe USA (come quelle del 25% su Canada e Messico) “potrebbero avere un impatto significativo” sulle economie di quei paesi – il che presagisce contromisure; situazioni simili nel 2018 videro, ad esempio, la Cina annullare l’acquisto di prodotti agricoli USA, causando un eccesso di offerta interno e difficoltà per migliaia di agricoltori americani. In definitiva, i lavoratori americani impiegati nei settori colpiti indirettamente (esportazioni ostacolate o input rincarati) rischiano quanto meno una riduzione delle ore lavorate o dei salari, se non veri e propri tagli di posti.

Bilancio complessivo: A fronte di alcuni segmenti industriali che potrebbero assumere (acciaierie, fonderie, assemblaggi auto, forse alcune fabbriche elettroniche riconvertite), il consenso degli economisti è che il saldo netto sull’occupazione USA sarà probabilmente negativo o, nel migliore dei casi, solo lievemente positivo con costi elevati per posto di lavoro “salvato”. Un’analisi di Moody’s Analytics avverte che uno scenario estremo di dazio universale (20% su tutte le importazioni) farebbe schizzare il tasso di disoccupazione USA al 7,3% (dal ~3,5% pre-dazi), sintomo di una forte contrazione occupazionale. Anche scenari più moderati comportano aumenti della disoccupazione rispetto al trend.

Detto ciò, esistono opinioni divergenti: l’Economic Policy Institute ha contestato stime catastrofiche di perdita di posti (come uno studio che ipotizzava -146 mila posti per i dazi su acciaio), sostenendo che modelli più realistici mostrano perdite molto inferiori (forse poche migliaia di posti) per quei specifici dazi. Secondo EPI, modelli che assumono piena occupazione tendono a ridurre al minimo gli effetti negativi, poiché l’economia si riassesta. Quindi, se il mercato del lavoro americano restasse vicino alla piena occupazione, gli effetti potrebbero manifestarsi più in variazioni di salario che in disoccupazione. Tuttavia, con i dazi del 2025 estesi a quasi tutti i settori, è plausibile attendersi quantomeno un rallentamento delle nuove assunzioni e una maggiore prudenza da parte delle aziende, se non licenziamenti, specialmente se l’economia rallenta contemporaneamente.

In conclusione, i dazi del 2025 offrono benefici occupazionali concentrati (in industrie specifiche e spesso altamente automatizzate, come l’acciaio, dove l’impatto occupazionale diretto è modesto in numeri assoluti) a fronte di costi occupazionali diffusi in settori più ampi (manifattura a valle, agricoltura, logistica, distribuzione). Governi e think tank pro-dazi enfatizzano i lavoratori “salvati” nella rust belt industriale; gli economisti più critici sottolineano i posti di lavoro persi altrove e il rischio di un saldo negativo, con possibili 142 mila occupati in meno in futuro secondo il Tax Foundation o ancor peggio in scenari recessivi. La cautela è dunque d’obbligo: il mercato del lavoro USA, finora robusto, potrebbe iniziare a mostrare segnali di indebolimento man mano che le tariffe si ripercuoteranno sull’economia reale.

Reazioni dei partner commerciali e rischio di ritorsioni

L’annuncio dei dazi USA del 2 aprile 2025 ha suscitato forti reazioni da parte dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, con toni che vanno dalla preoccupazione alla ferma condanna, fino alla minaccia esplicita di misure di ritorsione. La prospettiva di una guerra commerciale su larga scala ha spinto governi e organizzazioni internazionali a preparare contromosse. Ecco una panoramica delle reazioni:

  • Unione Europea: La UE, colpita da un dazio “reciproco” generalizzato del 20% sui suoi beni, ha reagito in modo compatto. La Presidente Ursula von der Leyen ha definito i dazi USA “ingiustificati” e ha avvertito che l’Europa è pronta a rispondere “in modo unitario, determinato e giustificato”. Bruxelles preferirebbe evitare l’escalation (“il nostro obiettivo è una soluzione negoziata”), ma ha preparato un piano solido di ritorsioni se i negoziati fallissero. In particolare, l’UE potrebbe colpire settori simbolo americani, con misure equilibrate tra gli Stati membri. Già durante l’iter di preparazione, esponenti europei hanno menzionato la possibilità di prendere di mira i giganti tecnologici americani (Big Tech) con tassazioni o restrizioni, come forma di pressione​

ansa.it

italianinews.com

. “Se Trump mette i dazi, colpiremo le Big Tech” ha dichiarato Manfred Weber, leader del PPE al Parlamento Europeo​

ansa.it

, suggerendo che la risposta UE potrebbe concentrarsi sui servizi digitali americani, dato che gli USA hanno colpito i beni europei. Inoltre, la UE aveva già annunciato misure ritorsive per i dazi su acciaio/alluminio in vigore: tariffe del 50% su prodotti iconici USA (whisky bourbon, motociclette Harley-Davidson, motoscafi) e ulteriori dazi su beni agroalimentari statunitensi. È probabile che queste misure entrino in vigore tra pochi giorni, come pianificato, e possano essere ampliate. In sostanza, l’Europa vuole “proteggere i propri interessi, la propria gente e le proprie aziende”: se gli USA non recedono, Bruxelles attuerà contromisure proporzionate per disincentivare l’aggressività commerciale americana. Il rischio è una spirale di ritorsioni reciproche che danneggerebbe entrambe le sponde dell’Atlantico.

  • Canada e Messico: Questi paesi, alleati e partner nell’USMCA (NAFTA rinnovato), sono stati colpiti da un dazio del 25% sulle loro esportazioni non coperte dall’accordo (come alcune categorie di beni non esentate). La reazione è stata immediata. Il Messico ha definito la mossa “offensiva, diffamatoria e infondata”. La ministra messicana Claudia Sheinbaum ha dichiarato che il suo governo “annuncerà misure in risposta” agli USA. Ciò potrebbe includere dazi su prodotti agricoli americani (mais, soia, carni) di cui il Messico è grande acquirente, oppure su beni industriali mirati a creare pressione politica (ad esempio colpire esportazioni statunitensi in stati chiave). Il Canada ha anch’esso preparato una lista di ritorsioni: già dopo i dazi del 2018 Ottawa aveva risposto con tariffe su 20,6 miliardi di dollari di beni importati dagli USA. Ora il governo canadese, deluso dal mancato esonero, potrebbe estendere tali misure. Il FMI ha avvertito che le tariffe su Canada e Messico avranno impatti significativi su di loro, segno che uno scontro commerciale nel Nord America è in atto. Entrambi i paesi potrebbero contestare i dazi in sede WTO (ritenendoli illegittimi se violano l’USMCA o regole multilaterali) e nel frattempo imporre dazi compensativi su beni USA: ad esempio, il Canada potrebbe colpire prodotti statunitensi simbolici (vino californiano, prodotti alimentari, attrezzature industriali) e il Messico ha paventato persino stop alla cooperazione in altri campi se la situazione degenerasse.
  • Cina: La Cina, bersaglio di un dazio aggiuntivo del 34% (portando le tariffe totali su molti suoi prodotti a livelli astronomici, considerando anche i dazi del 25% già esistenti su 250+ miliardi di export cinese)​

bloomberg.com

washingtonpost.com

, ha reagito con durezza. Pechino ha promesso ritorsioni proporzionate e “combattive”. Fonti Bloomberg riferiscono che la Cina ha minacciato contromisure su praticamente tutte le importazioni dagli USA e misure non tariffarie: ad esempio, restrizioni alle esportazioni di terre rare e materiali critici (cui l’industria USA high-tech è vulnerabile), intensificazione dei controlli e delle sanzioni sulle aziende americane in Cina, boicottaggi mirati di prodotti statunitensi da parte di consumatori cinesi incoraggiati dal governo. Il ministero del Commercio cinese ha definito le tariffe USA “una grave violazione delle regole commerciali internazionali” e ha presentato ricorso al WTO. Inoltre, i cinesi potrebbero riecheggiare la strategia del 2018 colpendo le esportazioni agricole USA: soia, mais, carne suina e bovina, frutti di mare – settori dove la Cina è un acquirente primario – potrebbero essere soggetti a nuovi dazi cinesi, causando un contraccolpo pesante sugli agricoltori americani. Questo rischio è concreto e già scontato dagli analisti: quando tariffe USA simili furono ipotizzate, “un dazio del 54% sui beni dalla Cina potrebbe condurre a un calo del 90% delle importazioni cinesi negli USA”

news.bloomberglaw.com

, e ovviamente la Cina reagirebbe con forza equivalente. Pechino ha anche intensificato il dialogo con altri partner asiatici (es. ha partecipato a un summit con Corea del Sud e Giappone) per rafforzare la cooperazione commerciale regionale e “prepararsi ad arginare i dazi degli Stati Uniti”. Ciò indica un possibile riallineamento geopolitico del commercio, con la Cina che cerca sponde altrove mentre è in rotta di collisione con Washington.

  • Altri partner asiatici ed emergenti: Paesi come il Giappone (dazio USA 24%), la Corea del Sud, l’India (26%), il Vietnam (46%) hanno manifestato preoccupazione e alcuni hanno segnalato possibili ritorsioni. L’India potrebbe alzare a sua volta le barriere su prodotti americani (ad esempio moto Harley-Davidson, che Nuova Delhi già tassi al 50% in risposta ai vecchi dazi USA). Il Vietnam, definito “manipolatore” da Trump per via dei surplus, subendo un dazio così alto (46%) rischia di perdere l’accesso al mercato USA per molti settori; Hanoi potrebbe cercare ricorso multilaterale, ma essendo più debole economicamente, avrà poche leve bilaterali (forse intensificherà i rapporti con Cina/UE). Il Giappone ha espresso “profondo rammarico” e starebbe valutando contro-dazi su beni USA (ad esempio sui prodotti agricoli come frumento e carne importati dagli Stati Uniti, molto consumati in Giappone, o su apparecchiature tecnologiche USA). Complessivamente l’Asia-Pacifico vede con allarme la mossa americana: l’Australia (sebbene alleata) teme di essere colpita indirettamente e il suo governo sta negoziando per esenzioni settoriali, mentre nazioni come Corea del Sud e Giappone coordinano risposte diplomatiche (il citato dialogo trilaterale con la Cina).
  • Organizzazioni internazionali: Il WTO ha ribadito l’importanza di attenersi alle regole e sta esaminando i reclami presentati da UE, Cina e altri. La direttrice Ngozi Okonjo-Iweala ha avvertito che una guerra commerciale generalizzata sarebbe “catastrofica” per l’economia globale​

globaltrainingcenter.com

e mina il sistema commerciale multilaterale guidato dagli USA stessi dal dopoguerra​

reuters.com

. Si teme un indebolimento ulteriore del WTO se grandi economie ignorano le sue regole. Il FMI e la Banca Mondiale hanno espresso timori per le ripercussioni sui paesi emergenti e sulla stabilità finanziaria: tensioni commerciali possono provocare fughe di capitali dai mercati emergenti e volatilità valutaria. Anche forum come il G20 vedranno con ogni probabilità la questione in agenda, con pressioni multilaterali sugli USA perché moderino la loro posizione.

In definitiva, il rischio di un’escalation di misure ritorsive è elevato. Molti partner hanno già elenchi di beni USA da colpire in risposta: tipicamente si scelgono prodotti emblematici e politicamente sensibili (es. le esportazioni agricole USA per colpire gli stati rurali pro-Trump; i prodotti di aziende iconiche come motociclette, jeans, bourbon, le Big Tech per colpire Wall Street e la Silicon Valley). L’UE ha sottolineato di voler calibrare la risposta per massimizzare l’impatto politico su Washington senza danneggiare eccessivamente i propri interessi​

rainews.it

rainews.it

. Ad esempio, colpire i colossi digitali USA (che pagano poche tasse in Europa, secondo Weber​

ansa.it

) potrebbe ottenere consenso interno europeo e mettere pressione su un settore chiave USA, evitando però di penalizzare troppo i consumatori europei (dato che tassare servizi digitali non incide come tassare beni di consumo).

Il dialogo diplomatico non è tuttavia interrotto: sono previste visite e colloqui (il Vicepresidente USA J. D. Vance è atteso in Europa entro fine mese, e il commissario UE al Commercio continua a confrontarsi con Washington)​

rainews.it

. Entrambe le parti sanno che una guerra commerciale aperta farebbe male a tutti e potrebbero cercare compromessi. Tuttavia, come ha notato un osservatore, “i dazi fanno male a tutti” e l’Europa “non ha dato inizio allo scontro”, quindi politicamente la UE si sente in dovere di reagire.

In conclusione, l’imposizione unilaterale di dazi USA ha innescato tensioni globali: i partner chiave minacciano ritorsioni equivalenti, e si prospetta un periodo di incertezza e conflittualità commerciale. Se nessuna delle parti cederà, potremmo assistere a un ciclo di dazi e controdazi che ricorda (in scala amplificata) la guerra dei dazi del 2018-2019. Ciò aumenterebbe ulteriormente i costi economici per tutte le economie coinvolte, accentuando il rischio di recessione globale. La prossima sezione analizza proprio le conseguenze sistemiche sul commercio mondiale e sulle catene del valore.

Conseguenze sul commercio globale e sulle catene del valore

L’introduzione di dazi diffusi da parte della prima economia mondiale rischia di avere ampie ripercussioni sul commercio globale e sul funzionamento delle moderne catene del valore internazionali. Di seguito esaminiamo gli impatti attesi:

  • Rallentamento del commercio mondiale: Le tariffe elevate tendono a ridurre i volumi degli scambi internazionali. Beni precedentemente importati diventeranno più costosi e potrebbero essere acquistati in minori quantità o da fonti alternative. Il WTO aveva previsto per il 2025 una moderata crescita del commercio (+3,3% in volume)​

wto.org

, ma questi sviluppi rappresentano un rischio al ribasso. Stime di banche d’affari indicano crolli drastici per alcuni flussi: con le nuove tariffe, le importazioni USA dalla Cina potrebbero calare fino al 90% per certi prodotti, dato che l’aliquota tariffaria combinata supera il 50%​

news.bloomberglaw.com

. In generale, si prospetta una contrazione del commercio globale poiché gli Stati Uniti ridurranno le importazioni (volutamente) e i partner, frenati economicamente, compreranno meno a loro volta. Il risultato potrebbe essere un ritorno dei volumi commerciali mondiali ai livelli di diversi anni fa, interrompendo la ripresa post-pandemica.

  • Rischio recessione globale: Organismi internazionali avvertono che un’escalation tariffaria potrebbe spingere l’economia mondiale in recessione. Moody’s Analytics ha lanciato l’allarme che l’imposizione di tariffe generalizzate potrebbe avere effetti così pesanti da innescare una grave recessione mondiale. Anche l’OCSE, nel suo outlook di marzo 2025, ha tagliato le previsioni di crescita globale al 3,1% (dal 3,3%) per il 2025, assumendo l’entrata in vigore dei dazi USA su Canada e Messico. Ha avvertito che “un aumento maggiore e più ampio delle barriere commerciali colpirebbe la crescita in tutto il mondo e aumenterebbe l’inflazione”. Se la situazione degenerasse, paesi fortemente orientati all’export potrebbero scivolare in recessione: l’OCSE stima che il Messico potrebbe essere spinto in una “profonda recessione nel 2025” e che il PIL del Canada crescerebbe solo dello 0,7% (ben 1,3 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni precedenti). Allargando il quadro, l’FMI ha sottolineato che una guerra commerciale prolungata “potrebbe porre rischi alla crescita globale”, con alcune proiezioni che indicano un possibile impatto negativo di diversi decimi di punto sul PIL mondiale in pochi anni​

infomineo.com

. In sintesi, c’è consenso sul fatto che queste misure protezionistiche estese rappresentino un vento contrario significativo per l’economia globale, arrivando in un momento in cui molti paesi stanno ancora recuperando dalla pandemia e affrontando altre incertezze (tensioni geopolitiche, crisi energetica, etc.).

  • Disgregazione delle catene globali del valore: Negli ultimi decenni circa due terzi del commercio mondiale avvenivano in regime di libero scambio o tariffe minime grazie ad accordi internazionali. Con l’imposizione di dazi elevati, si rischia di frammentare le filiere produttive globali. Molte industrie (automotive, elettronica, abbigliamento) hanno catene di approvvigionamento complesse che attraversano più paesi: pezzi prodotti in Cina, assemblaggi in Messico, componenti dall’Europa, ecc. I dazi costringono le imprese a ristrutturare queste filiere, cercando di produrre di più localmente o in paesi non colpiti da tariffe (il che però, vista l’ampiezza delle misure USA, lascia poche “aree franche”). Ad esempio, alcune aziende europee hanno già strategie per localizzare la produzione negli USA ed evitare i dazi: Tetra Pak (Svezia) produce imballaggi in Texas, Goglio (Italia) in Florida; colossi alimentari come Ferrero e Nestlé hanno decine di stabilimenti negli USA. Queste mosse, inizialmente concepite per avvicinarsi al mercato, ora diventano essenziali per aggirare i dazi. Altre aziende italiane citate (Rummo, Latteria Soresina) senza base produttiva USA stanno valutando di “assorbire i costi” o trovare soluzioni tampone. In generale, si assisterà a un’accelerazione del fenomeno di “localizzazione” o “regionalizzazione” delle supply chain: le imprese produrranno nel mercato di vendita finale (es. USA) per evitare tariffe, oppure in regioni con accordi preferenziali. Ciò potrebbe ridurre l’efficienza complessiva (perdendo i vantaggi comparativi della specializzazione internazionale) e aumentare i costi di produzione. Settori come l’elettronica di consumo, abituati a catene globali just-in-time, potrebbero subire ritardi e rincari dovendo riprogettare la logistica e i fornitori.
  • Ridefinizione delle alleanze commerciali: Paesi esclusi dalle relazioni commerciali tradizionali potrebbero stringere nuovi accordi tra loro. Come accennato, Cina, Giappone e Corea del Sud hanno tenuto il primo dialogo economico trilaterale da 5 anni per discutere un potenziale accordo di libero scambio regionale. Anche la UE potrebbe rafforzare i legami con partner asiatici o sudamericani per compensare la minore accessibilità del mercato USA. Ad esempio, l’Europa potrebbe accelerare accordi commerciali con l’ASEAN, l’India o approfondire quelli con il Mercosur sudamericano per diversificare i mercati. Gli stessi USA, paradossalmente, potrebbero spingere alcuni alleati storici a cercare maggiore indipendenza: il Regno Unito, pur “risparmiato” relativamente (dazio USA 10%), ha dichiarato di voler essere “il Paese meglio piazzato per evitare i dazi americani”

radiosenisecentrale.it

– il che potrebbe implicare concessioni o accordi bilaterali ad hoc con Washington, introducendo discriminazioni tra partner e un sistema di accordi “ad hoc” fuori dal quadro multilaterale. Tutto questo indebolisce il sistema commerciale basato su regole WTO, sostituendolo con una logica di blocchi e accordi bilaterali. La direttrice del WTO ha notato che la quota di commercio globale sotto l’egida WTO è scesa dall’80% al 75% circa, in parte a causa di nuovi dazi e accordi preferenziali esclusivi​

reuters.com

. Un ulteriore aumento di barriere può ridurre quella quota, segnalando una pericolosa erosione dell’universalità delle regole commerciali.

  • Impatto sulle economie emergenti e in via di sviluppo: Queste economie sono spesso terze parti nelle catene globali. Ad esempio, paesi asiatici emergenti producono componenti intermedi per la Cina, che poi assembla per gli USA. Con il calo di domanda dagli USA, potrebbero subire contraccolpi indiretti. Inoltre, i dazi differenziati penalizzano di più i paesi in via di sviluppo: va ricordato che in settori come l’agricoltura le tariffe MFN medie per i prodotti dei paesi poveri sono già alte (~20%), e ora l’accesso al mercato USA diventa ancor più difficile. I Paesi meno sviluppati potrebbero perdere opportunità di esportazione e investimenti, aggravando squilibri. È probabile anche un aumento del contenzioso commerciale: alcuni paesi emergenti potrebbero appellarsi al principio di nazione più favorita presso il WTO, sostenendo di essere discriminati. Se gli USA ignorassero eventuali sentenze WTO sfavorevoli (come fecero in parte durante la guerra dei dazi precedente), l’effetto sarebbe di delegittimare ulteriormente le istituzioni globali.

In definitiva, le conseguenze globali delineano un quadro di minore integrazione economica internazionale e maggiore frizione commerciale. L’incertezza elevata sulle politiche commerciali – definita “il peggior nemico degli investitori” – può frenare nuovi investimenti produttivi, sia domestici sia esteri, e spingere gli operatori a strategie difensive. Molte imprese multinazionali hanno sospeso decisioni in attesa di capire l’evoluzione delle tariffe e delle eventuali esenzioni. Questo clima di attesa e timore frena la crescita. Come nota Thomson di T. Rowe Price, “un aumento dell’inflazione, l’interruzione delle catene di approvvigionamento e misure di ritorsione dei partner possono avere un impatto negativo sulla stabilità economica globale”, e data la posizione dominante degli USA “una recessione degli Stati Uniti avrebbe un impatto negativo sui mercati di tutto il mondo”.

C’è anche uno scenario più ottimistico: se queste mosse spingessero entro pochi mesi a nuove negoziazioni commerciali (ad esempio un grande accordo USA-UE per ridurre tariffe e barriere reciproche, o aggiustamenti con la Cina su pratiche sleali), il commercio globale potrebbe riprendersi. Tuttavia, nel breve termine, prevalgono i rischi di contrazione e disordine nelle catene globali. Le imprese e i governi stanno adattandosi a un mondo più segmentato, con costi di transizione potenzialmente alti.

Effetto previsto su specifici settori industriali statunitensi

L’impatto dei dazi del 2025 varia sensibilmente tra i diversi settori industriali negli Stati Uniti. Alcuni comparti trarranno vantaggio dalla protezione, mentre altri subiranno costi e contraccolpi significativi. In questa sezione analizziamo le prospettive per automotive, elettronica/high-tech, agricoltura e altri settori chiave:

  • Automotive (auto e componentistica): Questo settore è al centro delle misure. Il dazio del 25% sulle auto importate renderà le vetture straniere (e.g. tedesche, giapponesi, coreane) molto più care sul mercato USA, probabilmente di diversi migliaia di dollari in più per veicolo. Ciò dovrebbe favorire le vendite delle case automobilistiche americane sul mercato interno, almeno per quei segmenti dove esiste un’alternativa domestica comparabile. Tuttavia, l’automotive globale è altamente integrato: le case USA dipendono da molte parti importate (motori, componenti elettronici, trasmissioni dalla Messico/Canada, batterie dall’Asia, ecc.). Questi componenti ora saranno soggetti a dazi (a meno di esenzioni specifiche ancora da definire), alzando i costi di produzione anche per le auto assemblate in America. Le aziende come Ford e GM rischiano quindi un aumento del costo unitario dei propri veicoli, che potrebbe riflettersi in prezzi più alti per i consumatori o margini ridotti. Hanno perciò fatto lobbying per escludere almeno parte della componentistica essenziale dai dazi. Se tali esenzioni non saranno ampie, il rischio è che il prezzo medio delle auto negli USA salga, sia per importate che per domestiche (per ragioni diverse). Sul fronte dell’occupazione, come detto, a breve termine gli stabilimenti americani potrebbero mantenere o incrementare la forza lavoro per soddisfare la domanda interna, ma se i costi esplodono e le vendite globali calano, nel medio termine anche i produttori USA potrebbero trovarsi in difficoltà. Inoltre, va considerata la possibile ritorsione europea: l’UE ha minacciato dazi sulle auto americane (sebbene gli USA ne esportino poche in Europa, colpire ad esempio ricambi auto o moto americani potrebbe comunque avere qualche effetto). In sostanza, l’industria auto USA beneficerà in casa di un vantaggio competitivo artificiale, ma dovrà affrontare costi maggiori e potenziali perdite di mercati esteri. Il bilancio netto per i grandi gruppi auto americani è incerto: Stellantis (con Chrysler) e GM hanno molti componenti globali, e potrebbero vedere ridotta la redditività su alcuni modelli; Tesla potrebbe paradossalmente avvantaggiarsi poiché importa meno (produce in USA) e i concorrenti europei nelle EV diventano più costosi da importare. Un dato indicativo: secondo stime di Goldman Sachs, i dazi potrebbero ridurre gli utili dell’S&P 500 di circa il 2-3%

usquanta.com

, e gran parte di quell’impatto è legato a settori manifatturieri come l’auto. Insomma, automotive USA: (+) più vendite domestiche di auto nazionali; (-) input cost più elevati; (-) rischio minori esportazioni e vendite globali; (+/-) possibili riallocazioni produttive (molti produttori esteri, es. BMW, Toyota, aumenteranno la produzione nei loro impianti USA per evitare dazi, creando concorrenza “locale” aggiuntiva).

  • Elettronica e high-tech: Gli Stati Uniti importano una grande quota di prodotti elettronici di consumo (telefoni, computer, TV) e componenti (semiconduttori, schede, batterie) dall’Asia (Cina, Taiwan, Corea, Vietnam). Con i nuovi dazi – ad esempio il 34% sui prodotti cinesi e oltre il 30% su alcuni altri asiatici – molti dispositivi elettronici subiranno forti rincari. Marchi americani come Apple, che producono in Cina, dovranno affrontare costi doganali notevoli per reimportare gli iPhone in patria (in parte potranno ricorrere alle scorte o spostare produzione verso paesi come India/Vietnam, ma anche questi non sono esenti da tariffe del tutto). Nel breve periodo i consumatori pagheranno di più elettronica e elettrodomestici, oppure le imprese dovranno assorbire margini più bassi. Dal lato produttivo, alcune aziende potrebbero valutare di assemblare più prodotti in USA: la recente spinta a costruire fabbriche di semiconduttori sul suolo americano (grazie al CHIPS Act) potrebbe mitigare la dipendenza su certi chip, ma la maggior parte dei componenti (schermi, circuiti stampati, batterie al litio) non si produce in America in volume significativo. Pertanto, le aziende high-tech USA si trovano con supply chain interrotte o rincarate, riducendo la loro competitività. Ad esempio, un produttore di apparecchiature di telecomunicazione che importava moduli cinesi ora dovrà pagarli un terzo in più – potenzialmente perdendo contratti se i concorrenti stranieri (in mercati non colpiti) offrono prezzi migliori. Sul fronte delle esportazioni, la Cina potrebbe reagire limitando l’export verso gli USA di materiali cruciali (terre rare, componentistica elettronica), aggravando la situazione. D’altro canto, aziende tech straniere (es. Samsung, LG) potrebbero accelerare l’apertura di stabilimenti negli USA per servire il mercato senza tariffe – il che nel lungo termine potrebbe creare qualche posto di lavoro high-tech domestico (es. fabbriche di elettrodomestici coreane in USA). Il settore high-tech USA è però tipicamente innovativo e basato su catene globali: i dazi rischiano di rallentarne l’innovazione e ridurne la competitività internazionale, in quanto costi maggiori e possibili contromisure (la Cina potrebbe boicottare prodotti di tech USA, favorendo competitor locali). In sintesi, per l’elettronica: consumatori pagano di più, aziende come Apple, HP, Dell vedono margini erosi; possibili benefici per alcune produzioni domestiche di nicchia (es. assemblaggio di componenti militari o sensibili potrebbe aumentare per ragioni di sicurezza), ma complessivamente sfida notevole per l’elettronica di largo consumo.
  • Agricoltura e agroalimentare: L’agricoltura USA è spesso vittima collaterale delle guerre commerciali, e questo caso non fa eccezione. I dazi americani del 2 aprile non colpiscono in modo diretto massicci flussi agricoli in entrata (gli USA importano soprattutto cibo tropicale, frutta e vino: beni che potrebbero diventare più costosi per il consumatore, ma spesso senza alternative domestiche in pari quantità). L’effetto interno diretto potrebbe essere un lieve aumento dei prezzi di alcuni alimenti importati (es. formaggi europei, olio d’oliva, vini, birra estera in lattina tassata al 25%). Ciò favorirà i produttori alimentari americani in quei segmenti: ad esempio, il vino californiano diventa relativamente più conveniente rispetto al vino francese tassato, i formaggi Wisconsin più economici del parmigiano importato tassato, ecc. Tuttavia, i benefici per i produttori agricoli interni da questa dinamica sono limitati, perché molti prodotti importati non hanno sostituti perfetti nazionali (gli americani continueranno a voler parmigiano o champagne, magari pagando di più). Al contrario, il vero rischio per l’agricoltura USA sta nelle ritorsioni estere. Già nel 2018 l’UE impose dazi ad esempio sul burro d’arachidi e sul succo d’arancia USA, e soprattutto la Cina sospese l’acquisto di soia dagli Stati Uniti, dirottando verso Brasile e Argentina. Ora, con l’ampiezza del conflitto commerciale, si prevede che Cina, UE, Messico, Canada e altri colpiranno pesantemente i prodotti agricoli americani: soia, mais, carne bovina e suina, latticini, frutta, ecc. Il Messico, maggiore importatore di mais giallo USA, potrebbe cercare forniture alternative o imporre dazi di ritorsione, danneggiando gli agricoltori del Midwest. La Cina ha già introdotto tariffe sulle carni suine USA e potrebbe estenderle. L’UE potrebbe prendere di mira whiskey bourbon, arachidi, riso o altre esportazioni agricole simbolo. Tutto ciò si traduce in minori sbocchi di mercato per gli agricoltori statunitensi, eccedenze interne e pressioni ribassiste sui prezzi alla produzione agricoli negli USA. Il governo americano potrebbe doversi preparare a sussidi di sostegno (come fece nel 2019 con un pacchetto di aiuti ai farmer colpiti dalle ritorsioni cinesi). Quindi il settore agricolo USA molto probabilmente perderà più di quanto guadagnerà dalla politica dei dazi: eventuali vantaggi (leggera protezione sul mercato domestico per alcuni prodotti) sono superati dagli svantaggi sui mercati esteri. Questo è riconosciuto anche politicamente: diversi stati agricoli e organizzazioni di categoria (es. American Farm Bureau) hanno espresso forte preoccupazione. Non ultimo, l’agroalimentare USA che dipende da input importati (es. mangimi, fertilizzanti, macchinari agricoli esteri ora più cari) vedrà aumentare i costi di produzione, comprimendo ulteriormente i margini degli agricoltori.
  • Settore manifatturiero generale (macchinari, apparecchiature, beni industriali): Oltre ai settori specifici sopra, la manifattura USA nel suo complesso subirà un impatto. Da un lato, la protezione di ampi settori può dare respiro ad alcune industrie che competono con import cinese o europeo (es. produttori di macchinari industriali, pompe, valvole, attrezzature – dove le importazioni cinesi e tedesche erano forti: ora avranno un 20-30% di sovrapprezzo). Questo potrebbe tradursi in qualche commessa in più per le fabbriche americane di beni strumentali. Dall’altro lato, però, quasi ogni fabbrica USA è anche un utilizzatore di componenti importati: i costi di produzione in settori come il machinery aumenteranno e la competitività sui mercati esteri calerà. Un costruttore americano di macchinari agricoli, ad esempio, che importa pezzi dall’UE e rivende globalmente, vede costi salire e possibilità di ritorsioni sui propri prodotti (magari venduti in Europa) – rischiando vendite più basse. Alcuni settori manifatturieri USA strettamente legati all’export (ad es. macchinari per costruzioni, aerei civili) potrebbero affrontare un calo di domanda estera e dover ridurre la produzione. Ingegneria e manifattura: un rapporto indicava che le esportazioni italiane di macchinari verso gli USA (15 mld €) sarebbero colpite dai dazi, e aziende con produzione USA come IMA o Sacmi sarebbero avvantaggiate; analogamente, imprese USA concorrenti potrebbero prendere qualche quota di mercato domestico. Ma globalmente il settore manifatturiero rischia effetti recessivi per via delle barriere: Larry Fink ha segnalato che “il protezionismo è tornato con forza” e genera “molta ansia per l’economia”, temendo che alla fine a pagare il conto siano anche “pensioni e risparmi, in fumo con il calo delle borse” legato al rallentamento industriale.
  • Energia e materie prime: Questo è un settore meno direttamente toccato dai dazi (che si concentrano su beni manufatti), ma può avere implicazioni. Ad esempio, se la Cina o altri limitano l’import di GNL o petrolio USA in ritorsione, i produttori americani di energia potrebbero vedere cali di domanda estera. Invece, import di petrolio greggio o minerali strategici verso gli USA probabilmente non saranno tassati per evitare shock energetici (infatti i dazi sono più su manufatti). Tuttavia, materie prime come i minerali rari (cobalto, litio, terre rare dalla Cina) potrebbero rientrare in dispute: la Cina minaccia di limitare l’export, causando possibili penurie all’industria americana delle batterie e difesa.

In conclusione, per i principali settori industriali USA gli effetti attesi possono essere riassunti come segue:

Settore

Effetti previsti

Automotive

Protetto sul mercato interno: auto estere +25% di prezzo → più vantaggio competitivo per auto domestiche. Costi input +: componenti importati (metalli, elettronica) rincarati → aumento costi produzione. Possibili ritorsioni: UE può tassare auto/parti USA. Netto: vendite interne di Big Three agevolate, ma filiera appesantita da costi e prospettive export negative.

Elettronica

Costo import +: smartphone, PC, TV da Cina/Asia +30% prezzo → rischio inflazione tecnologica. Supply chain interrotta: carenza componenti chiave (se Cina limita export). Produzione interna: qualche assemblaggio può rientrare in USA (fabbriche chip incentivate) ma nel breve subisce shock. Netto: margini ridotti per tech USA, prezzi consumer più alti, potenziale ritardo innovazione.

Agricoltura

Mercato interno leggermente protetto: beni alimentari importati più costosi → lievi vantaggi per vino, latticini, carni USA. Esportazioni penalizzate: ritorsioni colpiscono soia, mais, carne USA → eccedenze e prezzi agricoli domestici giù. Costi input +: fertilizzanti e macchine importate più care. Netto: settore agricolo in difficoltà, redditi agricoltori giù, probabili sussidi compensativi.

Acciaio & Alum.

Produzione interna su: tariffe 25% mantengono capacità domestica → +1,9% prod. acciaio USA (2018-21)​

msci.org

, posti di lavoro in acciaierie stabilizzati. Prezzi interni +: acciaio USA +2,4%, alluminio +1,6%​

msci.org

→ utenti finali pagano di più. Downstream -: fabbricanti che usano metalli (es. auto) produzione -0,6%​

msci.org

, posti di lavoro persi a valle. Netto: industria metallurgica USA tutelata; industrie utilizzatrici penalizzate.

Macchinari & Manifattura

Domanda interna mista: beni strumentali esteri costano di più → alcune commesse passano a produttori USA. Costo componenti +: elettronica, parti meccaniche importate con dazi → costi produzione ↑, competitività export ↓. Ritorsioni: possibili (es. UE su macchinari USA) limitano vendite estere. Netto: lieve beneficio per produttori domestici focalizzati su mercato interno; per chi esporta o dipende da input globali, impatto negativo​

msci.org

.

Hi-Tech & Servizi

Big Tech a rischio indiretto: UE minaccia tassazione servizi digitali USA​

ansa.it

come ritorsione → possibile calo utili per aziende come Google, Amazon in Europa. Settori innovativi: costi maggiori su apparecchiature e talenti globali (clima meno aperto) → potenziale freno a investimenti R&D internazionali negli USA. Netto: impatto moderato nel breve (dazi colpiscono beni fisici); a medio termine possibile contesto meno favorevole per settori avanzati globalizzati.

(Fonti: stime Moody’s, Tax Foundation, OCSE, USITC​

msci.org

msci.org

, dichiarazioni UE/USA.)

Come si evince, nessun settore è completamente immune: quelli protetti ottengono vantaggi circoscritti e affrontano comunque conseguenze sui costi, mentre quelli esposti ai mercati internazionali subiscono soprattutto i contraccolpi negativi. L’automotive è emblematico di questa ambivalenza: protezione sulle vendite interne ma rischio di aumento costi e perdita di efficienza globale. L’agricoltura rappresenta invece un chiaro perdente netto date le ritorsioni estere. I settori high-tech e dei servizi vengono toccati indirettamente (dalla reazione altrui e dal clima meno cooperativo).

In prospettiva, alcuni settori potrebbero adattarsi: ad esempio, le imprese manifatturiere con presenza produttiva all’estero potrebbero rilocalizzare parte della produzione negli USA (per sfruttare il mercato protetto) – questo è già visibile con aziende europee e asiatiche che potenziano stabilimenti in America. Ciò porterebbe beneficio al settore costruzioni/impiantistica USA nel breve (per nuovi impianti) e qualche assunzione industriale, ma si tratta di un processo graduale. Nel breve termine prevale lo shock: supply chain sconvolte e ricalibrazione delle strategie.

Implicazioni per la competitività delle imprese americane (specialmente dipendenti da importazioni)

Un aspetto cruciale è come i dazi incideranno sulla competitività di lungo periodo delle imprese statunitensi, in particolare quelle che dipendono da materie prime o componenti importati. Le implicazioni possono essere riassunte in alcuni punti chiave:

  • Aumento dei costi di produzione: Molte aziende USA, per restare competitive, hanno strutturato le loro filiere globalmente, approvvigionandosi di input dove conviene. Ora quei componenti (dall’acciaio europeo ai microchip taiwanesi) costano dal 10% al 34% in più per via dei dazi. Le “fabbriche americane pagheranno di più per i componenti prodotti in Europa”, ha avvertito von der Leyen. Questo vale anche per componenti asiatiche o di altri paesi colpiti. Ne risulta una crescita generalizzata dei costi per l’industria USA. Se l’azienda trasferisce questi costi sui prezzi finali, i suoi prodotti diventano meno competitivi sia in patria (rispetto a eventuali concorrenti esteri non colpiti – anche se la maggior parte dei concorrenti esteri avrà lo stesso dazio entrando negli USA, salvo dirottare tramite paesi esenti) sia soprattutto all’estero. Ad esempio, un macchinario made in USA diventa più caro per un compratore europeo non solo per la tariffa UE di ritorsione, ma anche perché contiene pezzi più costosi. Se invece l’azienda assorbe i costi, vedrà erodere i suoi margini e avrà meno risorse per investire e innovare. Nessuna delle due opzioni è positiva per la competitività di lungo termine.
  • Distorsioni e inefficienze nella supply chain: Le imprese che dipendono da input importati potrebbero provare a cambiare fornitore per evitare i dazi – ad esempio cercando fornitori domestici o di paesi non soggetti a tariffe elevate. Tuttavia, ciò non è sempre fattibile: o perché non esiste sufficiente capacità produttiva interna (si pensi a componenti elettroniche avanzate che negli USA non si fabbricano in massa) o perché i paesi “esenti” non hanno filiere equivalenti. Il risultato può essere dover acquistare a costi più elevati da fornitori sub-ottimali, oppure sostenere costi per riconvertire la produzione in-house di parti prima acquistate (con possibili colli di bottiglia iniziali). Tutto ciò introduce inefficienze: componenti non più scelti per merito di costo/qualità, ma per considerazioni tariffarie. La competitività internazionale delle imprese USA potrebbe soffrirne: negli ultimi decenni esse avevano ottimizzato le catene globali per massimizzare efficienza e minimizzare costi; ora vengono “forzate” a scelte meno efficienti, perdendo quel vantaggio di costo che spesso le aiutava a esportare con successo.
  • Perdita di mercati esteri e quote export: La competitività si esprime non solo in patria ma anche all’estero. Le imprese americane già affrontano ritorsioni tariffarie sui loro prodotti in molti mercati (come visto, UE, Cina, ecc.). Ad esempio, un produttore americano di motociclette (Harley-Davidson) vede i suoi motocicli tassati al 50% dall’UE in risposta, rendendoli molto meno appetibili rispetto a marchi giapponesi o europei. Ciò significa perdita di quota di mercato globale per l’azienda USA, con probabile contrazione della produzione e dei profitti. Se questo scenario si replica su vari settori (aerospaziale, alimentare, moda, macchinari), l’industria statunitense potrebbe perdere posizioni nella competizione globale a vantaggio di competitor di paesi non coinvolti nella disputa (ad esempio, le aziende giapponesi o sudcoreane potrebbero prendere il posto di quelle americane in Europa e Cina, sfruttando il conflitto USA vs. resto del mondo). Insomma, le imprese USA rischiano di vedere chiudersi mercati esteri o di doversi installare fisicamente in quei mercati per servirli (con investimenti non previsti).
  • Rischio di diminuzione dell’innovazione e produttività: Nel lungo termine, la competitività dipende da produttività e innovazione. Tariffe protettive molto alte possono ridurre la pressione competitiva sul mercato domestico, portando alcune aziende a sentirsi al sicuro e magari meno incentivate a innovare o efficientare (il cosiddetto rischio di “complacency” da protezione). Anche se l’obiettivo è rafforzarle, c’è il pericolo di creare “campioni nazionali” poco dinamici, che poi fuori dal mercato protetto faticano. D’altro canto, l’aumento dei costi delle attrezzature importate può frenare il rinnovamento tecnologico: se macchinari avanzati europei o robot giapponesi costano molto di più per via dei dazi, un’azienda americana potrebbe rinviare gli investimenti in nuovo capitale produttivo, accontentandosi di equipaggiamenti meno efficienti. Ciò nel tempo erode la produttività. Inoltre, talenti e collaborazioni internazionali potrebbero risentirne: un clima di guerra commerciale non favorisce gli scambi di idee e persone, e aziende globali potrebbero scegliere di investire meno in centri di ricerca USA se vedono barriere nell’interscambio.
  • Caso delle PMI importatrici: Molte piccole e medie imprese americane basano il loro business sull’importare prodotti finiti o semilavorati a basso costo per rivenderli o utilizzarli. Queste PMI hanno margini ridotti e poca capacità di negoziare sconti dai fornitori esteri: i dazi del 10-20-30% possono essere devastanti per la loro competitività. Alcune saranno costrette a rialzare i listini, perdendo clientela a favore di produttori nazionali integrati verticalmente (se esistenti) o semplicemente vendendo meno. In definitiva, potremmo assistere a fallimenti o consolidamenti di PMI che non reggono l’aumento dei costi, con impatto negativo sul tessuto concorrenziale.
  • Vantaggi competitivi per alcune imprese: Non tutti gli effetti sono negativi. Alcune imprese americane non dipendenti da import, o che già producevano principalmente in patria con materie prime nazionali, ora godono di un mercato domestico più protetto e possono espandersi. Ad esempio, aziende nell’arredamento di design che producono negli USA potranno conquistare clienti che ora evitano mobili italiani tassati. L’industria siderurgica USA, ridotta ma presente, ha un vantaggio sui concorrenti esteri e può investire in nuova capacità (se crede che i dazi resteranno a lungo). In questi segmenti, la competitività interna migliora perché la concorrenza estera è artificialmente limitata. Tuttavia, il rischio è che tali aziende si concentrino sul mercato interno protetto e perdano l’attitudine a competere fuori, diventando “campioni domestici” ma irrilevanti globalmente.

In termini di competitività generale del “Sistema America”, gli economisti temono che i dazi su vasta scala possano ridurre la crescita potenziale. Il Tax Foundation stima quel -0,2% annuo di PIL potenziale, che accumulato significa una traiettoria di economia più piccola di quanto sarebbe senza barriere, quindi meno opportunità per le imprese. Anche Goldman Sachs ha ridotto la previsione di crescita USA 2025 all’1,7% (dal 2,2%) proprio a causa di queste politiche​

morningstar.it

. Questo suggerisce che la competitività, lungi dal venir galvanizzata, potrebbe soffrirne.

Da ultimo, va menzionato l’incubo burocratico paventato: von der Leyen ha detto che i dazi creeranno “un mostro burocratico di nuove procedure doganali” e “un incubo per tutti gli importatori statunitensi”. La gestione delle esenzioni, delle quote, delle contro-tariffe aggiungerà complessità amministrativa per le imprese USA, specialmente quelle medio-piccole che non hanno reparti dedicati al trade compliance. Ciò è un altro fattore che riduce l’agilità e la competitività rispetto a concorrenti di paesi dove il commercio resta più libero.

In sintesi, le imprese americane che si approvvigionano dall’estero vedranno erosione della loro competitività di costo, dovranno riorganizzare supply chain con possibili inefficienze, e potrebbero perdere terreno sui mercati internazionali a favore di concorrenti stranieri. Mentre nel breve alcune industrie guadagnano protezione, nel medio-lungo termine c’è il rischio concreto di un arretramento competitivo complessivo del settore produttivo USA nel contesto globale. Naturalmente, molto dipenderà dalla durata dei dazi: se saranno temporanei e volti a ottenere concessioni, l’impatto strutturale potrebbe essere limitato; se diventeranno il “nuovo normale”, le aziende USA dovranno adattarsi permanentemente a un mondo di alti muri tariffari, con le conseguenze sopra descritte.

Conclusione: I dazi del 2 aprile 2025 rappresentano un cambiamento di paradigma per la politica commerciale USA. Basandosi sui parametri economici e sulle valutazioni di numerose fonti affidabili, emerge un quadro nel quale: i settori protetti ottengono vantaggi immediati limitati, mentre l’economia nel suo complesso affronta costi in termini di prezzi, efficienza e rapporti internazionali. Le motivazioni ufficiali di riequilibrio e tutela industriale si scontrano con il rischio di “danni collaterali” significativi: un’inflazione più alta, posti di lavoro netti persi, ritorsioni che deprimono l’export, catene del valore stravolte e un’erosione della fiducia reciproca nel sistema commerciale globale. Come notato da un’analisi, “i dazi fanno male a tutti”

rainews.it

: l’auspicio degli osservatori neutrali (FMI, OCSE, WTO) è che si possa tornare al dialogo per scongiurare gli scenari peggiori. Nel frattempo, imprese e consumatori dovranno navigare in un contesto più incerto e costoso, adattandosi a questa nuova realtà protezionista. Le prossime mosse – negoziati bilaterali, eventuali accordi esentativi o escalation di contromisure – determineranno se l’impatto descritto sarà attenuato o accentuato nel futuro prossimo.

Fonti:

  • Dati e annunci governativi USA e UE (dazi per settore e motivazioni)
  • Valutazioni di istituzioni economiche (FMI, OCSE) e banche d’investimento​

morningstar.it

  • Opinioni di think tank (Tax Foundation, EPI, Atlantic Council)
  • Analisi di mercato e media specializzati (Morningstar, Moody’s, Reuters, Bloomberg)​

morningstar.it

reuters.com

  • Dati WTO e USITC su effetti di tariffe (2018-2021)​

msci.org

msci.org

  • Dichiarazioni ufficiali partner (UE, Messico, Canada, Cina)

 

Stampa | Mappa del sito
© 2015 - Essere & Pensiero - Testata giornalistica online ai sensi dell'art. 3-bis del d.l. 63/2012 sull'editoria convertito in legge n. 103/2012 - Direttore Responsabile: Francesco Pungitore